Con l’art. 17 della legge n. 203/2024 entra, nel variegato mondo della contrattualistica del lavoro italiano, una nuova tipologia, quella denominata contratto misto, secondo la quale, in capo alla stessa persona, (soggetto iscritto ad un albo o un registro professionale che esercita attività libero professionale) sussiste la possibilità, con lo stesso datore, di avere un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e parziale e un rapporto di lavoro autonomo di natura professionale. Per la verità, il comma 2, con un iter parzialmente diverso, prevede tale possibilità anche per un dipendente non iscritto ad alcun albo o registro, né esercitante attività libero professionale, ma di ciò ne parlerò successivamente.
Un antesignano di tale contratto può essere definito quello che nel 2017 (ovviamente, con contenuti del tutto diversi) fu sperimentato da Intesa San Paolo S.p.A. con il “protocollo per lo Sviluppo Sostenibile”, sottoscritto con le organizzazioni sindacali, ove fu varato il c.d. “contratto ibrido” (per i c.d. “nuovi Global Advisor”) che prevedeva in capo allo stesso soggetto la stipula di due contratti: uno di lavoro subordinato a tempo parziale di tipo verticale ed uno di agenzia, compensato con provvigioni. Di tale accordo il Gruppo bancario ha tuttavia, dato una sostanziale disdetta dal febbraio 2023, motivata da una presunta disaffezione a tale novità contrattuale.
In attesa di chiarimenti specifici da parte degli organi amministrativi competenti c’è da sottolineare come, per tale tipologia contrattuale, relativamente ai professionisti, venga meno la causa ostativa prevista dall’art. 1, comma 57, lettera d-bis, della legge n. 190/2014 la quale, sul punto, non comprendeva nella applicazione del regime fiscale forfetario le “persone fisiche la cui attività sia esercitata prevalentemente nei confronti dei datori di lavoro con i quali sono in corso rapporti di lavoro o erano intercorsi rapporti di lavoro nei due precedenti periodi di imposta, ovvero nei confronti di soggetti direttamente o indirettamente riconducibili ai suddetti datori di lavoro, ad esclusione dei soggetti che iniziano una nuova attività dopo aver svolto un periodo di pratica obbligatoria ai fini dell’esercizio di arti o professioni”.
La disposizione si compone di 3 commi e individua esattamente il campo di applicazione per quel che concerne i datori di lavoro potenzialmente interessati.
Destinatarie della norma sono le imprese che occupano, alla data del 1° gennaio dell’anno al quale si riferisce l’assunzione, più di 250 dipendenti. Si tratta, quindi, delle c.d. “grandi imprese” a cui fa riferimento la definizione comunitaria che, peraltro, vi correla anche valori di fatturato superiore a 50 milioni di euro e di bilancio superiore a 43 milioni. La scelta operata dal Legislatore appare abbastanza ponderata: almeno nella fase iniziale si intende sperimentare tale nuova tipologia contrattuale in aziende che presentano una struttura organizzata e complessa.
Il numero dei dipendenti va calcolato alla data del 1° gennaio dell’anno nel quale vengono stipulati contestualmente sia il contratto di lavoro subordinato a tempo parziale ed indeterminato ed il contratto di lavoro autonomo o d’opera professionale.
Il comma 1 definisce la figura del lavoratore potenzialmente interessato al contratto misto: deve essere iscritto ad albi o registri professionali ed esercente attività libero professionale, ivi comprese quelle di agenzia, di rappresentanza commerciale e di collaborazione coordinata e continuativa citate dall’art. 409, n. 3, cpc. .
La norma si riferisce, quindi, ai soggetti che sono titolari di partita IVA: tale affermazione non è, però assoluta, atteso che il comma 2 presenta una eccezione alla quale, peraltro, non può applicarsi il regime fiscale forfetario atteso che i lavoratori non sono professionisti iscritti ad un albo o un registro.
Per come è scritta la disposizione sembra favorire i professionisti ai quali il proprio ordine non vieta la possibilità di intrattenere contemporaneamente un rapporto libero professionale con un altro subordinato (ad esempio, consulenti del lavoro), cosa che appare, invece, esclusa per gli avvocati. Se una prima riflessione è consentita, si può affermare che tale contratto potrebbe avere un proprio “appeal”, soprattutto, per i professionisti che si trovano all’inizio della propria attività.
L’art. 409, n. 3, fornisce anche una definizione di coordinazione, necessaria anche per comprendere la figura dei soggetti individuati dal comma 2: essa si ha nei casi in cui le modalità di coordinamento della prestazione siano state fissate dalle parti di comune accordo (preferibilmente per iscritto), ma il collaboratore organizza la propria attività in maniera del tutto autonoma.
Ma, quali sono i contenuti del contratto misto?
Il lavoratore deve essere assunto con un contratto di lavoro subordinato a tempo parziale ed indeterminato con un orario non inferiore al 40% e non superiore al 50% dell’orario settimanale previsto dal CCNL applicato in azienda. In molti casi la norma legale potrebbe essere in contrasto con quanto il contratto collettivo prevede come “minimum” per l’instaurazione del part-time: qualora ciò accada, prevale la disposizione di legge.
Contestualmente al primo contratto ne va sottoscritto un secondo di natura autonoma o professionale ed il titolare di partita IVA ha l’obbligo di eleggere un proprio domicilio fiscale in un luogo diverso da quello dell’impresa da cui dipende.
Il contratto di lavoro subordinato segue tutte le regole previste per tale rapporto di lavoro pur se, nella pratica, occorrerà non sovrapporre le ore e le giornate di prestazione subordinata con quelle di natura autonoma o libero professionale. Ciò, a mio avviso, porterà il rapporto subordinato a tempo parziale a non essere pienamente fruibile in tutte le sue potenzialità, in quanto, ad esempio, il lavoratore potrebbe non essere in grado di poter effettuare lavoro supplementare o di usufruire di clausole elastiche, nei casi in cui andassero a sovrapporsi al secondo rapporto.
Il contratto misto deve essere obbligatoriamente certificato (comma 3): ciò appare una deroga al principio della volontarietà. Ricordo, per completezza di informazione che l’obbligo della certificazione, nel nostro ordinamento, oltre che per l’ipotesi che si sta trattando, sussiste, unicamente, per i contratti che riguardano i c.d. “ambienti confinati”. Gli organi deputati a tale incombenza sono identificati dall’art. 76 del D.L.vo n. 276/2003 e comprendono la commissione di certificazione istituita presso ogni Ispettorato territoriale del Lavoro, la commissione istituita presso ogni Università e Fondazione Universitaria autorizzate dal Ministero del Lavoro, la commissione di certificazione operante presso ogni ordine provinciale dei consulenti del lavoro, la commissione istituita presso ogni Ente Bilaterale se previsto dal rispettivo CCNL. L’organo collegiale chiamato a certificare dovrà acquisire espressa dichiarazione dalle parti relativa alla non sovrapposizione della prestazione subordinata e di quella autonoma o libero professionale nelle stesse ore o giornate.
Il comma 2 disciplina, inoltre, la possibilità che la prestazione di lavoro autonomo sia svolta da un soggetto che non è iscritto ad alcun albo o registro professionale ma, in tal caso, la coesistenza dei due rapporti in contemporanea (subordinato ed autonomo) è rimessa ad un accordo di prossimità stipulato con le RSA o le RSU ex art. 8, comma 2, del D.L.vo n. 138/2011, con la necessità, quindi, che per la sua validità, venga individuato un obiettivo di scopo tra quelli indicati al comma 1 (forse, applicando la regolazione delle materie previste dal comma 2, si potrebbe pensare alla “modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni coordinate e continuative e le partite IVA”). Si tratta di una disposizione un po’ scarna ove alla difficoltà, sempre presente, di stipulare contratti di prossimità con le organizzazioni sindacali interne, si accompagnano dubbi relativi alla effettiva portata della disposizione.
Fin qui la disposizione che, a mio avviso può portare ad alcune criticità.
E’ vero che la norma parla di non coincidenza tra le due prestazioni sia nelle giornate che nell’orario ma, sotto l’aspetto pratico, si possono presentare alcune criticità come quella, ad esempio, correlata ai riposi giornalieri e settimanali che nel D.L.vo n. 66/2003 sono “tarati” sul lavoro subordinato.
Cosa succede se il dipendente, in qualità di professionista (per il quale non ci sono limitazioni nell’orario per l’espletamento della sua attività anche al di fuori del rapporto con il datore di lavoro) “invade” il periodo di riposo che deve rispettare come subordinato tra una prestazione e l’altra (11 ore)?
Se il datore dovesse troncare il rapporto riguardante le prestazioni professionali, siamo sicuri che ciò, anche indirettamente, non si rifletta sullo stesso lavoratore che, per parte del proprio tempo, presta attività come subordinato?