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Trattamento fiscale lavoratori in smart working

L’Agenzia delle Entrate, con la risposta n. 458 del 7 luglio 2021, ha fornito alcuni chiarimenti in merito al trattamento fiscale delle retribuzioni per lavoro dipendente erogate a soggetti residenti e non residenti che a causa dell’emergenza epidemiologica svolgono l’attività lavorativa in Italia, in smart working, invece che nel Paese estero dove erano stati distaccati – articoli 2, 23 e 51 del Tuir.

La risposta dell’Agenzia delle Entrate

Ciò considerato, con la prima richiesta di chiarimenti, la Società istante domanda se per i dipendenti che abbiano trascorso in Italia, durante l’anno bisestile 2020, meno di 184 giorni, il compenso relativo ai giorni di lavoro svolti in Italia sia da considerare come reddito prodotto nel territorio dello Stato da soggetti non residenti e, in quanto tale, sia da assoggettare ad imposizione in Italia.

Ai sensi dell’articolo 23, comma 1, lettera c), del Tuir, si considerano prodotti nel territorio dello Stato i redditi di lavoro dipendente prestato, da soggetti non residenti, nel territorio dello Stato.

Tale disposizione non trova applicazione qualora il nostro Paese abbia stipulato, con lo Stato di residenza del lavoratore, una convenzione per evitare le doppie imposizioni che riconosca a quest’ultimo Stato la potestà impositiva esclusiva sul reddito di lavoro dipendente prestato in Italia.

Al riguardo, si fa presente che l’articolo 15, paragrafo 1 – Lavoro Subordinato – del citato Accordo, prevede che le remunerazioni percepite da un residente di uno Stato contraente per «l’attività dipendente» svolta nell’altro Stato contraente, sono imponibili in entrambi gli Stati.

In base al combinato disposto dell’articolo 15 della citata Convenzione e dell’articolo 23 del Tuir, la scrivente è dell’avviso che il reddito di lavoro dipendente percepito dai dipendenti della Società istante e residenti in Cina (circostanza qui assunta acriticamente), per l’attività di lavoro svolta in Italia, rilevi fiscalmente anche nel nostro Paese, ai sensi degli articoli 49 e 51, commi da 1 a 8, del Tuir.

Si fa, altresì, presente che nella fattispecie rappresentata dall’Istante non può trovare applicazione il disposto del paragrafo 2 dell’Accordo in esame, che riconosce sul reddito percepito per l’attività svolta nell’altro Stato, ma nel rispetto di tutte le condizioni ivi previste, la potestà impositiva esclusiva dello Stato di residenza dei lavoratori.

Più precisamente, il citato paragrafo 2 dell’articolo 15 prevede che « le remunerazioni che un residente di uno Stato contraente riceve in corrispettivo di un’attività dipendente svolta nell’altro Stato contraente sono imponibili soltanto nel detto primo Stato se:

  1. il beneficiario soggiorna nell’altro Stato per un periodo o periodi che non oltrepassano in totale 183 giorni nel corso dell’anno solare considerato; e
  2. le remunerazioni sono pagate da, o per conto di, un datore di lavoro che non è residente dell’altro Stato; e
  3. l’onere delle remunerazioni non è sostenuto da una stabile organizzazione o da una base fissa che il datore di lavoro ha nell’altro Stato».

Considerato che nella fattispecie in esame la remunerazione è erogata da un datore di lavoro residente in Italia, non si ritiene soddisfatta la condizione di cui alla citata lettera b) e, conseguentemente, le remunerazioni de quibus risultano imponibili in entrambi gli Stati.

La conseguente doppia imposizione sarà risolta, ai sensi dell’articolo 23, paragrafo 3, della Convenzione, attraverso il riconoscimento di un credito d’imposta da parte della Cina, Stato di residenza dei lavoratori dipendenti.

Con il secondo quesito, l’Istante chiede se la permanenza in Italia per più di 184 giorni durante il 2020, dei dipendenti della Società istante abbia comportato, in linea di principio, una modifica nel loro status di residenza fiscale.

Come già sopra ricordato, la valutazione dello status di residenza di un soggetto non può essere valutata in sede di interpello, tuttavia si forniscono al riguardo i seguenti elementi di carattere interpretativo.

Ai fini della individuazione della residenza fiscale di un individuo, secondo il diritto interno e in assenza di una disposizione normativa specifica che tenga conto dell’emergenza COVID, occorre far riferimento ai criteri indicati nel citato articolo 2 del Tuir, la cui applicazione prescinde dalla circostanza che una eventuale permanenza della persona fisica nel nostro Paese sia dettata da motivi legati alla pandemia. Infatti, ai sensi dell’articolo 2, comma 2, del Tuir «si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo d’imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile».

Tanto chiarito sotto il profilo della normativa italiana, occorre altresì considerare le disposizioni convenzionali.

In particolare, nel caso di specie, assume rilievo l’articolo 4 del Trattato con la Cina che stabilisce, al paragrafo 2, le cosiddette tie breaker rules per dirimere eventuali conflitti di residenza tra gli Stati contraenti. Dette regole fanno prevalere il criterio dell’abitazione permanente cui seguono, in ordine gerarchico, il centro degli interessi vitali, il soggiorno abituale e la nazionalità.

Ciò posto, si osserva come una persona fisica iscritta all’AIRE e rientrata in Italia unicamente a seguito dell’emergenza Covid potrebbe essere considerata fiscalmente residente in Italia secondo le disposizioni interne, in quanto risulterebbe avere il domicilio nel nostro Paese per la maggior parte del periodo d’imposta. Qualora si verificasse un conflitto di residenza con lo Stato estero, questo dovrebbe essere risolto facendo ricorso ai citati criteri convenzionali.

In tale ipotesi, come anche indicato al paragrafo 44 dell’analisi effettuata dal Segretariato OCSE sui trattati e l’impatto della crisi da COVID-19, nell’ipotesi in cui il soggetto disponga di un’abitazione permanente in entrambi gli Stati, occorrerà verificare gli altri criteri; il conflitto di residenza sarà solitamente risolto usando il criterio del “soggiorno abituale”.

Con specifico riferimento al criterio del “soggiorno abituale”, si richiama il paragrafo 19 del Commentario del Modello OCSE in cui si precisa che il test per dirimere il conflitto di residenza non sarà soddisfatto semplicemente determinando in quale dei due Stati contraenti l’individuo ha trascorso più giorni durante il periodo interessato. Al fine di stabilire il luogo del soggiorno abituale, occorre infatti tener conto della frequenza, durata e regolarità dei soggiorni che fanno parte della routine regolare della vita di un individuo. Inoltre, l’analisi deve coprire un periodo di tempo sufficiente per poter accertare tali aspetti evitando l’influenza di situazioni transitorie.

Qualora i dipendenti della Società istante fossero da considerare residenti in Italia, con il terzo quesito si chiede se la base imponibile di lavoro dipendente possa essere determinata ai sensi dell’articolo 51, comma 8-bis, del Tuir, considerando fittiziamente di fonte estera il reddito derivante da attività svolta in Italia, per cause imputabili all’emergenza sanitaria e definibili di forza maggiore, con relativa spettanza del credito per le imposte assolte all’estero.

Come già evidenziato, l’analisi svolta dal Segretariato dell’OCSE volta a neutralizzare, nei confronti dei lavoratori dipendenti che svolgono l’attività lavorativa al di fuori dello Stato di residenza, le conseguenze fiscali delle misure di restrizione alla movimentazione, riguarda le sole norme convenzionali, e non ha rilievo nell’interpretazione della normativa interna. Fermo restando che detta analisi è stata accolta dall’Italia, allo stato, unicamente negli accordi amministrativi stipulati con la Francia, la Svizzera e l’Austria, le indicazioni del Segretariato OCSE non esplicano comunque effetti ai fini dell’interpretazione di una norma dell’ordinamento interno.

Conseguentemente, nel presupposto dello status di residenza in Italia dei lavoratori in esame, in relazione al terzo quesito, si è dell’avviso che la disciplina fiscale prevista dal comma 8-bis dell’articolo 51 del Tuir non può trovare applicazione dal momento che tale disposizione richiede il soggiorno all’estero per più di 183 giorni nell’arco di dodici mesi, da parte del lavoratore residente in Italia.

Ciò posto, per i motivi illustrati, nella fattispecie in esame si ravvisa lo svolgimento nel nostro Paese della prestazione lavorativa da parte di soggetti residenti.

Pertanto, non sono soddisfatte le condizioni previste dal citato comma 8bis ai sensi del quale «In deroga alle disposizioni dei commi da 1 a 8, il reddito di lavoro dipendente, prestato all’estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto da dipendenti che nell’arco di dodici mesi soggiornano nello Stato estero per un periodo superiore a 183 giorni, è determinato sulla base delle retribuzioni convenzionali definite annualmente con il decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale di cui all’art. 4, comma 1, del D.L. 31 luglio 1987, n. 317, convertito, con modificazioni, dalla L. 3 ottobre 1987, n. 398».

La risposta all’ultimo quesito dell’Istante, volto a confermare la correttezza del metodo di conteggio dei giorni illustrato, al fine di soddisfare il requisito dei “183 giorni nell’arco di 12 mesi” previsto dall’articolo 51, comma 8-bis, del Tuir, si considera assorbita da quanto rappresentato in riscontro al terzo quesito.