I trasferimenti plurimi devono essere considerati come “licenziamenti indiretti” ai fini dell’applicazione delle regole dei licenziamenti collettivi? Questa la questione che solleva la Corte d’appello di Napoli alla Corte di giustizia europea, con ordinanza pubblicata il 10 dicembre scorso.
La vicenda che ha dato origine all’ordinanza riguarda un gruppo di lavoratori interessati da un trasferimento collettivo da una sede lavorativa sita in Campania a una diversa unità produttiva collocata in Sardegna, a oltre 600 chilometri di distanza. Dopo essersi rifiutati di dare corso al trasferimento, questi lavoratori sono stati licenziati dal datore di lavoro e hanno impugnato i recessi, deducendo che i provvedimenti di trasferimento erano equiparabili a un licenziamento collettivo in base alla legge 223/1991. La società si è difesa rilevando che il trasferimento presso la nuova sede rispondeva a una esigenza organizzativa e facendo presente che il licenziamento dei lavoratori è stato intimato solo dopo oltre 30 giorni di assenza ingiustificata presso la nuova sede.
In primo grado, il ricorso dei lavoratori è stato accolto in quanto, secondo il Tribunale, i trasferimenti imposti ai lavoratori configurano una ipotesi di licenziamento indiretto plurimo che, per il numero di lavoratori coinvolti, è equiparabile, sotto il profilo delle conseguenze prodotte, a un licenziamento collettivo.
Il datore di lavoro ha proposto appello contro la sentenza di primo grado, rilevando che, in base alla direttiva dell’Unione 98/59/Ce, il raggiungimento della “soglia” comunitaria che determina l’avvio della procedura di informazione e consultazione sindacale si verifica solo in presenza di almeno cinque licenziamenti intesi in senso stretto.
La Corte d’appello di Napoli ritiene necessario investire della questione la Corte di giustizia, tenendo in considerazione il fatto che non esiste, nel nostro Paese, un orientamento univoco sul tema dei cosiddetti licenziamenti indiretti. In alcune occasioni, infatti, la Corte di cassazione ha ritenuto che le risoluzioni consensuali derivate «dalla mancata accettazione di un trasferimento» fossero equiparabili a «licenziamenti» ai fini dell’applicazione della direttiva 98/59/Ce (sentenze 15401/2020 e 15118/2021), mentre in altre circostante ha adottato una nozione più restrittiva (sentenza 13714/2001).
A fronte di un quadro giurisprudenziale così incerto, secondo la Corte d’appello di Napoli si rende necessario l’intervento della Corte Ue. Nel rinviare la questione al giudice comunitario, la Corte offre anche la propria interpretazione, mettendo in luce che sussisterebbe nell’ordinamento dell’Unione una piena assimilazione tra licenziamenti e le misure equivalenti riconducibili alla nozione di licenziamenti “indiretti”.
In conseguenza di questa equiparazione, prosegue la Corte d’appello, rientrerebbero nella nozione eurounitaria di “licenziamento” (articolo 1, comma 1, della direttiva 98/59/Ce) anche le iniziative unilaterali del datore di lavoro che, sulla base di un giudizio prognostico (Corte di giustizia, sentenza del 10 settembre 2009, causa C‑44/08), in ragione del concreto pregiudizio che producono attraverso la modifica sostanziale e peggiorativa un elemento essenziale del contratto di lavoro, tendenzialmente con carattere permanente, sono idonee a indurre la scelta o un comportamento del lavoratore atto a cessare il rapporto di lavoro.
La parola passa ora alla Corte di giustizia, chiamata a dare una risposta che avrà importanti ricadute pratiche nelle relazioni industriali.