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Social e rapporto di lavoro: attenzione al mezzo utilizzato

La Cassazione ha fatto di recente riemergere la rilevanza delle esternazioni effettuate dai lavoratori con gli strumenti che la tecnologia mette a disposizione. Qualche riflessione sulle differenze dell’utilizzo degli strumenti: dalle chat di WhatsApp, alle pagine, anche private, dei social come Facebook.

La recente sentenza di Cassazione del 8 novembre 2024 n. 28828 ci consente di affrontare e comprendere l’intricato rapporto tra social media (e loro utilizzo, a volte anche esagerato) e rapporto di lavoro (nei suoi rilievi extra lavorativi).

Il caso in trattazione riguarda una esternazione effettuata da un lavoratore utilizzando Facebook.

Va anzitutto contestualizzata la vicenda sotto il profilo territoriale. La pronuncia, infatti, è relativa a vicende accadute a dipendenti della più grande acciaieria d’Italia, in crisi da molti anni, attanagliata da problemi ambientali e di salute pubblica e con ricadute occupazionali su tutto il territorio in cui opera.

Rigettando il ricorso della Società, la Cassazione conferma la sentenza della Corte d’Appello di Lecce – Sez. distaccata di Taranto, ritenendo non sindacabile, in sede di legittimità, la ricostruzione effettuata dai giudici di merito per i quali il post contestato – contenente l’esortazione a visionare una fiction televisiva narrante la morte di una bambina causata da malattia indotta dalla vicinanza di uno stabilimento siderurgico – non contenesse “nessun riferimento né diretto né indiretto… al suo attuale datore di lavoro, che solo di recente ha rilevato lo stabilimento e nulla ha a che vedere con la vicenda rappresentata nella fiction in questione“.

La Corte di merito aveva da ciò tratto la conclusione “secondo cui il fatto contestato è insussistente, perché nessun comportamento di rilievo disciplinare, idoneo ad offendere il datore di lavoro o lederne la reputazione, è stato posto in essere“.

Ci troviamo dunque di fronte ad un messaggio postato sulla pagina privata dell’utente Facebook, dipendente dell’acciaieria.

La Corte regolatrice risolve il problema su un piano sostanzialmente processuale, confermando che la valutazione circa la portata della critica al datore di lavoro investe inevitabilmente una quaestio facti, che può essere sindacata solo nei ristretti limiti in cui può esserlo ogni accertamento di fatto.

Di conseguenza, senza entrare nel merito del contenuto delle dichiarazioni del lavoratore e senza approfondire il tema dello strumento utilizzato, la Cassazione risolve la questione avallando l’irrilevanza delle dichiarazioni rispetto al nuovo datore di lavoro che gestisce l’acciaieria, essendo i fatti oggetto della fiction relativi al periodo precedente l’ultima acquisizione.

In precedenza, tuttavia, Cass. 6 maggio 2024 n. 12142 aveva confermato le sentenze dei giudici di merito che avevano, invece, ritenuto legittimo il licenziamento intimato per giusta causa dal datore di lavoro, per avere il lavoratore diffuso, tramite il social network Facebook, affermazioni diffamatorie nei  confronti del datore di lavoro e dei vertici aziendali, attribuendo loro comportamenti apertamente disonorevoli ed infamanti con un post idoneo a qualificare in modo offensivo e dispregiativo l’azienda e altamente lesivo dell’immagine della stessa.

Il lavoratore, ricorrendo per Cassazione, aveva evidenziato che il predetto post era stato pubblicato per breve periodo e reso visibile solo alla cerchia dei suoi “amici” di social, e solo successivamente diffuso da terzi mediante “screenshot” contro la sua volontà.

Egli, peraltro, invocava al riguardo le tutele previste dall’art. 51 c.p., dall’art. 15 della Cost. che tutela la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, fra le quali risulta inclusa anche quella che avviene attraverso i social media.

Tale argomentazione non è stata accolta dalla S.C.  sia perché ritenuta nuova nel giudizio – e come tale inammissibile – sia perché in base al consolidato orientamento dei giudici di legittimità (viene richiamata Cass. 27.4.2018 n. 10280) il mezzo utilizzato – Facebook – consente un profilo allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione all’interno di un gruppo di persone comunque numeroso.

Come sostenuto da Cass. 26.5.2023 n. 14836Facebook, pur se ad accesso circoscritto, è naturalmente destinato ad uscire dalla cerchia delle “amicizie” e per il proprio meccanismo di funzionamento può essere veicolato e rimbalzato verso un pubblico indeterminato, tanto che l’immissione di un post di contenuto denigratorio è stato ritenuto più volte idoneo ad integrare gli estremi della diffamazione.

In questa seconda prospettiva, nella quale è certo l’elemento denigratorio o, peggio, diffamatorio contenuto nella manifestazione del pensiero, emerge il tema della natura del mezzo utilizzato.

La citata giurisprudenza si è soffermata sul social Facebook, di comune utilizzo, considerandone gli effetti pubblici anche quando il pensiero viene espresso all’interno di una comunità circoscritta alle “amicizie” accettate dall’autore.

L’utilizzo delle chat

Cosa accade però se lo stesso messaggio viene condiviso attraverso un altro strumento di comunicazione, come può essere ad es.  WhatsApp o altre chat composte – a volte – anche da numerosi iscritti?

Va, anzitutto, precisato che, anche sulla base della giurisprudenza costituzionale, “lo scambio di messaggi elettronici, e-mail, SMS, whatsapp e simili – rappresenta, di per sé, una forma di corrispondenza” (pronuncia emessa nell’ambito di un conflitto di attribuzioni: C. Cost.  22 giugno 2023 n. 170) e ciò anche nel caso di messaggi già ricevuti e letti dal destinatario.

Quindi le chat di WhatsApp – in quanto destinate ad un numero ristretto di persone – si contraddistinguono per essere equiparabili alla corrispondenza privata che, in quanto tale, non può essere divulgata all’esterno.

Di ciò sembra trovarsi conforto nell’art. 15 Cost., che definisce inviolabili la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione.

La segretezza si deve intendere come espressione della più ampia libertà di comunicare liberamente con chiunque e, corrispondentemente, di voler escludere da detta comunicazione tutti gli altri. Essa, quindi, implica il diritto di escludere dalla comunicazione soggetti diversi dai destinatari selezionati dal mittente. Mittente che pertanto può pretendere che gli estranei non vengano a conoscenza del contenuto delle sue dichiarazioni.

Chi rivela a terzi il contenuto della chat o del gruppo WhatsApp commette – in questa prospettiva – un reato, quello di violazione del segreto della corrispondenza, comportamento che è appunto punito dal codice penale e la divulgazione di fatti, che possono essere diffamatori, richiede particolare attenzione anche da parte di chi riceve il messaggio e decide altresì di divulgarlo all’esterno.

Qui si aprirebbe un ulteriore – e annoso – tema relativo all’utilizzabilità nel processo civile delle prove acquisite in modo illecito. Questione che in base alle recenti pronunce della S.C. (ad es. in materia di violazione della disciplina di cui all’art. 4 L. 300/1970) pare risolta in modo univoco nel senso della loro inutilizzabilità (ad es. Cass. 3.6.2024 n. 15391).

Di recente Cass. penale, sezione VI, 11 settembre/28.10.2024, n.39548 ha ritenuto inutilizzabili (nel processo penale) i messaggi WhatsApp che erano stati acquisiti senza espressa autorizzazione da parte dell’autorità giudiziaria.

Tale sentenza appare interessante anche nella prospettiva civilistica, poichè trova il proprio fondamento nei principi eurounitari (CGUE 4.10.2024 n. 548, causa C-548/21, Bezirkshauptmannschaft Landeck ). Quest’ultima, infatti, nella quale si affronta il tema della gravità dell’ingerenza nei dati contenuti in un cellulare, ha affermato che l’accesso ai dati personali può costituire una grave ingerenza nei diritti fondamentali dell’interessato.

Sembra, quindi, il caso di doversi soffermare – proprio a tutela del rispetto di quella libertà fondamentale che è la libertà di pensiero, tutelata dalla Costituzione – all’effetto a “catena” che tale divulgazione di una chat privata possa determinare rispetto all’originario intento che il mittente voleva raggiungere con la conversazione, trasformando un comportamento, denigratorio ma destinato ad un unico soggetto o ad un numero limitato e predeterminato di soggetti, sicuramente stigmatizzabile e anche offensivo, in uno diffamatorio.

Whatsapp

Quanto all’utilizzabilità dei messaggi WhatsApp al di fuori del gruppo e, per estensione nell’ambito del procedimento disciplinare, occorre tener conto del fatto che la Cassazione ha da tempo distinto i casi in cui il mezzo utilizzato (pubblicazione dei post sul profilo personale di un social network) sia intrinsecamente idoneo a determinare la circolazione del messaggio tra un gruppo indeterminato di persone (Cass. 27 aprile 2018, n. 10280, che ha ritenuto tale condotta integrare gli estremi della diffamazione e costituire giusta causa di recesso, siccome idonea a ledere il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo), dai casi in cui il contesto informatico, per la sua caratterizzazione di mezzo diretto unicamente agli iscritti, ossia ad un determinato gruppo e non ad una moltitudine indistinta di persone, sia da assimilare alla corrispondenza privata, chiusa e inviolabile, cui si riconnette l’esigenza di tutela della libertà e segretezza dei messaggi scambiati (Cass. 10 settembre 2018, n. 21965).

Solo in quest’ultimo caso, quindi, può sorgere il tema della inutilizzabilità della prova, in quanto essa, se utilizzata dal datore di lavoro non appartenente alla chat, può far ritenere che derivi da un atto illecito, di violazione della corrispondenza altrui.

In conclusione, le esternazioni su un social network, ancorché destinate solo alla più ristretta cerchia delle “amicizie” social del mittente, per la natura del mezzo utilizzato, in quanto idoneo a consentirne la circolazione in una cerchia indeterminata di persone, possono essere considerate a tutte gli effetti dichiarazioni pubbliche.

Identiche esternazioni, invece, riportate in una chat chiusa di WhatsApp, potrebbero non solo essere tutelate dai principi costituzionali che reputano inviolabile la segretezza della corrispondenza, ma altresì potrebbero essere tutelate dalle norme sulla responsabilità penale dei soggetti che violano la corrispondenza altrui (reato p.p. ex art. 616 c.p. e comunque punibile solo a querela della parte offesa, nel caso di specie il mittente) rendendole inutilizzabili nel processo successivo.

Fonte Quotidiano Più