La recente giurisprudenza della Cassazione ha lanciato una sfida molto impegnativa alla contrattazione collettiva, quella delle retribuzioni. Diverse sentenze di legittimità hanno messo in discussione il ruolo di “autorità salariale” del contratto collettivo, da sempre sede privilegiata per la definizione della retribuzione. Un processo avvenuto senza rotture formali con il passato ma che passa attraverso un’applicazione più intensa e sistematica di concetti che, fino a qualche tempo fa, avevano un impatto più teorico che reale.
Un cambiamento avviato da diverse sentenze dello scorso anno (tra le molte, la 27722 del 2 ottobre 2023), con la quale la Cassazione civile ha sviluppato un indirizzo coerente con i principi della giurisprudenza precedente, ma dotati di effetti ben più innovativi del passato.
Secondo questo indirizzo, la retribuzione fissata dalle parti sociali nei contratti collettivi può essere messa in discussione ogni volta che, in concreto, il livello salariale previsto non risulta conforme ai parametri di proporzionalità e sufficienza di matrice costituzionale (articolo 36).
Come accennato, questo concetto certamente non è innovativo nella giurisprudenza; quello che cambia, in questo indirizzo, è l’uso concreto che viene fatto di questo potere di sindacare la retribuzione fissata dalle intese collettive.
Perché la Cassazione, come raramente era accaduto in passato, legittima e sollecita un uso effettivo di questo suo potere e, rispetto a una specifica disciplina collettiva, avalla la scelta di dichiarare insufficiente una retribuzione concordata dalle parti sociali per mancato rispetto dei parametri costituzionali.
Con questo indirizzo, la Cassazione ha anche lanciato un monito al legislatore: anche ove fosse approvata una legge sul salario minimo legale, questa non potrebbe mai prevalere sul potere dovere del giudice di valutare, caso per caso, se la retribuzioni (anche quelle fissata sulla base di un meccanismo di legge) sia rispondente oppure no rispetto al parametro costituzionale.
Un approccio che ha fatto breccia anche nella giurisprudenza della Cassazione penale, la quale, in attuazione della normativa sullo sfruttamento del lavoro (l’articolo 603 bis del Codice penale, introdotto con la legge 138/2011 e poi rafforzato con la legge 109/1996), si è occupato di questo tema.
Emblematica di questo approccio è la sentenza 2573/2024 del 22 gennaio scorso, con la quale Sezione Penale della Cassazione, nell’ambito di un processo che vedeva imputati i titolari di un’azienda agricola che impiegava lavoratori extracomunitari con una retribuzione media di 3 euro l’ora (per giornate lavorative di 9 ore), ha ritenuto la sussistenza della «macroscopica sproporzione» tra questa retribuzione e quella prevista dal Ccnl di categoria (ricordiamo che questo è un indice del reato di sfruttamento).
La Corte non si è limitata a riscontare che la retribuzione pagata avesse uno scostamento eccessivo rispetto a quanto previsto dal contratto collettivo, ma si è spinta oltre, precisando che la retribuzione da prendere a riferimento per svolgere questa comparazione non coincide sempre e comunque con quella fissata dai contratti collettivi. Se il salario fissato in un accordo collettivo, infatti, non dovesse rispondere al principio di cui all’articolo 36 della Costituzione, che pretende una retribuzione idonea ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa al lavoratore e alla sua famiglia, la comparazione dovrebbe essere fatta prendendo a confronto livelli retributivi più alto. Questo perché, ricorda la Corte, «l’autonomia delle parti sociali non può derogare al principio della retribuzione quale soglia minima di dignità umana e sociale».
Concetti che danno il senso della sfida di cui si faceva cenno: le parti sociali sono chiamate, ancora più che in passato, a fare attenzione alla composizione della retribuzione, alla sua congruità (soprattutto nei livelli più bassi) con questi parametri, certamente impegnativi e difficili da individuare con precisione.
Una sfida impegnativa anche per le aziende, che dovranno tenere conto di questi indirizzi per valutare, caso per caso, se un livello retribuito particolarmente basso sia coerente o no con quel “minimo costituzionale” che viene di volta in volta richiamato dai giudici come soglia inderogabile sotto la quale una retribuzione diventa illegittima.