La tematica del contratto di appalto, con tutte le sue insidie, è tornata alla ribalta da qualche mese a questa parte, perlomeno da quando, con l’entrata in vigore del Dl 19/2024, si è sancito il ritorno alla sanzione penale in caso di appalto illecito e si sono inasprite anche le sanzioni (già penali) in caso di fraudolenza. Ma proprio a causa di questa maggiore gravosità dal punto di vista sanzionatorio (anche se poi in caso di regolarizzazione e di adesione agli strumenti deflattivi la ripenalizzazione determina, paradossalmente, un importo minore rispetto al regime precedente, quando l’illecito era punito con sanzione amministrativa), è più che mai opportuno capire quando effettivamente si è in presenza di una fattispecie contrattuale definibile “appalto” e quando invece il contratto è di altra natura.
Per comprendere meglio il concetto bisogna partire dai principi generali e tenere conto del fatto che il diritto del lavoro si basa sulla prestazione sostanziale, a nulla (o quasi nulla) rilevando il cosiddetto nomen iuris, cioè la denominazione formale che le parti hanno dato al contratto stesso. Ciò significa che, per accertare se si è in presenza effettivamente di un contratto di appalto, bisogna verificare che vi siano gli elementi costitutivi della fattispecie disciplinata all’articolo 1655 del Codice civile, tra cui risulta fondamentale: l’organizzazione dei mezzi necessari a cura dell’appaltatore, e con gestione a proprio rischio, finalizzata alla realizzazione di un’opera o alla fornitura di un servizio.
Ma, ancorché il concetto di organizzazione sembra associarsi a quello di un’impresa per così dire “strutturata”, va invece rilevato che vengono spesso inquadrate come rese all’interno di un contratto di appalto (in un’accezione onnicomprensiva) anche talune prestazioni fornite da soggetti (per esempio gli artigiani) che svolgono la loro attività con un apporto prevalentemente, se non esclusivamente, personale: quante volte, nel linguaggio comune, si è infatti sentito dire che la realizzazione di un’opera o la fornitura di un servizio è stata appaltata a un artigiano?
In realtà, se si aderisce a una interpretazione fornita da tempo dalla giurisprudenza di Cassazione (sentenze 7307/2001 e 12519/2010), confermata anche dalla una recente pronuncia 3682/2024, tale definizione non appare giuridicamente corretta. In queste sentenze la Corte sostiene infatti che, per essere in presenza di un contratto di appalto o subappalto, è necessario che il soggetto esecutore della prestazione sia un’impresa media o medio/grande e che quindi, simmetricamente, tale condizione non può sussistere in presenza di un piccolo imprenditore, qual è per definizione l’imprenditore artigiano (soprattutto se non si avvale nemmeno di lavoratori dipendenti), nel qual caso la fattispecie andrebbe inquadrata nel contratto d’opera (articolo 2222 del Codice civile) che ha come oggetto la realizzazione di un’opera o un servizio, al pari dell’appalto, ma è resa, in modo prevalente, da un lavoratore autonomo non organizzato in forma di impresa.
Vale a dire che la distinzione tra i due contratti si basa sul criterio della struttura e dimensione dell’impresa a cui sono commissionate le opere o i servizi, nel senso che il contratto d’opera è quello che coinvolge la piccola impresa, e cioè quella svolgente la propria attività con la prevalenza del lavoro personale dell’imprenditore (e dei propri familiari) e in cui l’organizzazione non è tale da consentire il perseguimento delle iniziative d’impresa facendo a meno dell’attività esecutiva dell’imprenditore, secondo il modulo organizzativo della piccola impresa, desumibile dall’articolo 2083 del Codice civile.
Questa distinzione tra contratto di appalto e contratto d’opera, certamente non sempre agevole da individuare, non è di poco conto in una strategia difensiva e nella valutazione di quale debba essere il regime sanzionatorio applicabile, atteso che se la fattispecie non può essere giuridicamente considerata quale contratto d’appalto, bensì quale contratto d’opera, in caso di utilizzo illecito di quest’ultimo si potranno avere parimenti conseguenze in capo al committente sul piano sanzionatorio, oltre che contributivo, derivanti ad esempio dalla riqualificazione del rapporto da (pseudo) artigiano a lavoro subordinato, ma non potranno essere applicate le sanzioni previste dall’articolo 18 del Dlgs 276/2003 (come riformate dal Dl 19/2024), a maggior ragione per il fatto che, tornando a essere di natura penale, non si può che applicare in modo rigoroso il “principio di legalità”, a cui fa da corollario il divieto di applicazione analogica. Come dire, che se non ci sono sanzioni espressamente previste dalla legge per il contratto d’opera illecito, non si possono prendere a prestito quelle previste per l’appalto, configurandosi una condizione di sostanziale impunità nel momento in cui fosse accertata la mancanza di genuinità.
Da ultimo, va rilevato che lo stesso discorso, cioè di possibile inapplicabilità della legge a quei contratti giuridicamente non definibili quali appalto potrebbe essere esteso anche nei confronti del precetto contenuto nel novellato comma 1-bis dell’articolo 29 del Dlgs 276/2003, peraltro modificato dalla legge di conversione del Dl 19/2024, per intenderci quello che impone (testualmente, solo in caso di appalto o di subappalto) «un trattamento economico e normativo complessivamente non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale e territoriale stipulato dalle associazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, applicato nel settore e per la zona strettamente connessi con l’attività oggetto dell’appalto e del subappalto».