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Molestie sessuali e giusta causa di licenziamento

Le molestie sessuali sul luogo di lavoro, incidendo sulla salute e la serenità (anche professionale) del lavoratore, comportano l’obbligo di tutela a carico del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 cod. civ., sicché deve ritenersi legittimo il licenziamento irrogato al dipendente che abbia molestato sessualmente una collega sul luogo di lavoro, a nulla rilevando la mancata previsione della suddetta ipotesi nel codice disciplinare

LA MASSIMA

Addebito disciplinare – rilevanza – giusta causa – esistenza – necessità – aspetto oggettivo e soggettivo – vaglio – necessità

Al fine di stabilire la rilevanza di un addebito disciplinare e, dunque, l’esistenza o meno di una giusta causa di licenziamento è necessario e sufficiente che il giudice sia tenuto a vagliare tanto l’aspetto oggettivo quanto quello soggettivo, come l’intenzionalità, il grado più o meno accentuato di colpevolezza, la necessità di dimostrare il dolo o la colpa dell’agente, non potendosi prescindere da una valutazione complessiva delle circostanze concrete in cui si realizza la condotta contestata

Cass. Sez. Lav. ord. 26 settembre 2023, n. 27363

La violenza contro le donne basata sul genere è un fenomeno spesso sommerso e molto diffuso, che assume molteplici forme più o meno gravi: violenza fisica, violenza sessuale, violenza psicologica, violenza economica, stalking, omicidio. Come riporta annualmente l’Istat, il fenomeno è molto diffuso, da nord a sud dell’Italia.

Trascorsi i dodici mesi richiesti dalle procedure internazionali, il 29 ottobre 2022, è entrata definitivamente in vigore in Italia la Convenzione n.190 dell’OIL (approvata il 21 giugno 2019 e ratificata in Italia con la Legge n. 4 del 15 giugno 2021). Come già puntualmente esplicitato con circolare del 3 novembre 2021, nella quale si anticipava la data dell’entrata in vigore nell’anno 2021, a causa di un impedimento burocratico avvenuto nel procedimento di ratifica svolto dal Ministero del lavoro italiano, anziché effettuarsi in un unico atto è stato necessario ricorrere ad un duplice passaggio istituzionale che ha allungato i tempi.

La Convenzione OIL 190 si distingue in particolare per quattro elementi:

  • Primo, riconosce che le molestie e la violenza di genere colpiscono sproporzionalmente donne e ragazze.
  • Secondo, rileva che la violenza domestica può avere ripercussioni sull’occupazione, la salute, la sicurezza delle persone colpite.
  • Terzo, stabilisce un ambito di applicazione molto ampio, ovvero tutti i settori, sia privati che pubblici, dell’economia formale e informale, di aree urbane o rurali, indipendentemente dallo status contrattuale delle lavoratrici e dei lavoratori.

Infine, si applica a casi di molestie e violenza che si verificano in occasione del lavoro (posto di lavoro), in connessione con il lavoro (luoghi destinati alla pausa, al pranzo, spogliatoi, bagni, uffici retribuzione, alloggi messi a disposizione dal datore di lavoro) o che scaturiscono dal lavoro (durante gli spostamenti per recarsi al lavoro, spostamenti o viaggi di lavoro, formazione o eventi correlati al lavoro).

Orientamenti giurisprudenziali

Le molestie sessuali sul luogo di lavoro, incidendo sulla salute e la serenità (anche professionale) del lavoratore, comportano l’obbligo di tutela a carico del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 cod. civ., sicché deve ritenersi legittimo il licenziamento irrogato a dipendente che abbia molestato sessualmente una collega sul luogo di lavoro, a nulla rilevando la mancata previsione della suddetta ipotesi nel codice disciplinare e senza che, in contrario, possa dedursi che il datore di lavoro è controparte di tutti i lavoratori, sia uomini che donne, e non può perciò essere chiamato ad un ruolo protettivo delle seconde nei confronti dei primi, giacché, per un verso, le molestie sessuali possono avere come vittima entrambi i sessi e, per altro verso, il datore di lavoro ha in ogni caso l’obbligo, a norma dell’art. 2087 cit., di adottare i provvedimenti che risultino idonei a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori, tra i quali rientra l’eventuale licenziamento dell’autore delle molestie sessuali(1) (Cass. 18 settembre 2009 n. 20272).

Per un caso di trasferimento discriminatorio adottato nei confronti di una lavoratrice che aveva denunciato le molestie sessuali subìte in azienda v. Trib Torino 7 maggio 2020, in Il lav. nella giur. 2021, 4, p. 404.

Le azioni moleste possono dar luogo anche al risarcimento dei danni in capo al datore di lavoro (cfr. ad esempio Cass. 12318/2010(2) per un caso in cui la Corte ha ritenuto «correttamente motivata la sentenza impugnata, che, con riferimento alle molestie sessuali subite da un lavoratrice, aveva liquidato equitativamente il danno non patrimoniale, utilizzando, quanto al danno morale, il criterio dell’odiosità della condotta lesiva nei confronti di persona in posizione di soggezione, e, quanto al danno esistenziale, quello della rilevanza del clima di intimidazione creato nell’ambiente lavorativo dal comportamento del datore di lavoro e del peggioramento delle relazioni interne al nucleo familiare della lavoratrice molestata in conseguenza dell’illecito subito»)(3).

Breve riepilogo della vicenda giudiziaria oggetto di commento

Nel dicembre del 2017, un ente giuridico avente natura di Fondazione, a seguito di rituale esperimento della procedura disciplinare di cui all’art. 7, l. 300/1970, licenziava per giusta causa un lavoratore, sulla scia di una serie di gravi elementi debitamente contestati, che facevano riferimento a due episodi (indicati nel rispetto del principio di specificità che deve informare la contestazione disciplinare): il primo, risalente alla fine di ottobre, avrebbe configurato sic et simpliciter un’ipotesi di molestie, per essere stato il dipendente accusato di aver palpeggiato una collega durante l’orario di lavoro; nella seconda occasione, collocata nel luglio precedente, aveva invece rivolto dei commenti gravemente inopportuni e alla presenza di altri nei confronti di un’altra collega.

Il lavoratore impugnava il licenziamento avanti al Tribunale di Palermo, competente territorialmente, il quale emetteva, nella fase sommaria del procedimento, un’ordinanza favorevole al lavoratore dichiarando così l’illegittimità del provvedimento espulsivo e contestualmente accordava al lavoratore la tutela prevista dall’art. 18, comma 4, st. lav., come modificato dalla legge 92/2012 (c.d. Legge Fornero).

Anche a seguito di opposizione proposta dalla Fondazione avverso la predetta ordinanza, il giudice di prime cure confermava il proprio orientamento emettendo la sentenza, che confermava quanto già stabilito nella fase sommaria.

La Corte d’Appello di Palermo, adita a seguito di reclamo proposto dal datore di lavoro, riformava il dictum di primo grado e accertava la legittimità del licenziamento irrogato, condannando per l’effetto il lavoratore alla restituzione di tutte le somme ricevute a titolo di risarcimento del danno dalla data del licenziamento e sino alla reintegrazione, maggiorate degli interessi e delle spese legali, imputate al lavoratore in ragione del principio di soccombenza.

Il Giudice d’Appello riteneva che i due comportamenti contestati, e valutati nel giudizio precedente come inidonei a ledere il vincolo fiduciario tra il lavoratore e la Fondazione, dovessero essere diversamente apprezzati, e pertanto riformava integralmente il giudicato di primo grado secondo quanto sopra illustrato.

Il lavoratore impugnava la sentenza della Corte Territoriale, proponendo ricorso avanti la Suprema Corte di Cassazione e generando il procedimento da cui è scaturita l’ordinanza in commento.

Il giudizio di Cassazione

Il lavoratore adiva il Giudice di legittimità denunciando, come primo motivo di ricorso, violazione e falsa applicazione della norma contenuta nell’art. 18, comma quarto, l. 300/1970 (in tema di tutele per illegittimo licenziamento); violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 cod. civ. (in tema di recesso per giusta causa dal rapporto di lavoro subordinato), in combinato disposto con gli artt. 18, l. 300/1970; violazione e falsa applicazione dell’art. 116 cod. proc. civ.

Con il secondo motivo di ricorso, deduceva l’omesso esame e/o la contraddittoria motivazione in ordine a un fatto controverso ai fini del giudicare, impugnando i capi della sentenza d’appello in cui veniva omesso l’esame della condotta riferibile al lavoratore dal punto di vista soggettivo.

Con il terzo e ultimo motivo lamentava infine la violazione e falsa applicazione sia del già citato art. 2119 cod. civ., sia dei canoni interpretativi stabiliti per la generale disciplina contrattuale dall’art. 1362 cod. civ., con specifico riferimento altresì a quanto previsto dall’art. 33 del Contratto Collettivo illo tempore vigente osservato per i dipendenti delle Fondazioni, da leggere in combinato disposto anche con le previsioni sancite dall’art. 6 del Codice Etico approntato e osservato dalla Fondazione medesima.

La Cassazione, esaminati tutti i motivi del ricorso, li riteneva trattabili congiuntamente, riconducendoli allo scioglimento di un’unica matassa.

Sottolinea innanzitutto come, nel suo primo motivo, il lavoratore abbia semplicemente ricalcato la linea ermeneutica in ordine alla contestazione disciplinare (alla sua qualificazione giuridica e alla reiterazione delle condotte) in modo adesivo rispetto a quella fornita dal Giudice di primo grado, poi sconfessata in appello in modo motivato.

In aggiunta a ciò, il ricorrente censurava la parte della sentenza d’Appello in cui la Corte, asseritamente, avrebbe trascurato di analizzare l’elemento soggettivo (dunque la maggiore o minore intensità del dolo o della colpa, a maggior ragione considerando che i fatti contestati al lavoratore intersecavano profili potenzialmente afferenti alla disciplina penale, con conseguente rafforzamento della rilevanza dell’elemento soggettivo), che avrebbe consentito una valutazione globale di tutta la vicenda, la quale invece sarebbe stata esaminata esclusivamente sotto il mero lato oggettivo della condotta del soggetto agente, impedendo di inquadrarlo correttamente: in tal proposito concludeva che non è stata offerta alcuna prova in ordine alla “massima volontà e massima rappresentazione” del lavoratore nel porre in essere la condotta di palpeggiamento ai danni della collega contestata dalla Fondazione datrice di lavoro e posta a fondamento del provvedimento espulsivo.

La Cassazione smentiva la ricostruzione del ricorrente, ricordando come già il Tribunale di primo grado (dunque l’autorità che aveva emesso la sentenza più favorevole al ricorrente) avesse già evidenziato le finalità tutt’altro che goliardiche della condotta del lavoratore, certamente non riducibile a mero cameratismo, e anzi volto a causare una mortificazione psicologica della destinataria della sua “pacca”, a fortiori in ragione del ruolo gerarchicamente sovraordinato svolto dal ricorrente (cui le due dipendenti destinatarie dei comportamenti contestati si rivolgevano dandogli del “lei”).    

In sintesi e in definitiva sui primi due motivi di ricorso, la S.C. rilevava come il giudice dell’appello avesse già correttamente considerato tutti gli elementi della fattispecie concreta, ivi compreso quello relativo all’elemento volitivo, da inquadrare, sulla scorta della precedente pronuncia, nell’ambito del dolo (o comunque della “volizione”).

Per quanto riguarda il terzo motivo di ricorso, la Cassazione respingeva la ricostruzione attorea in virtù della quale il licenziamento (e la sua valutazione di legittimità effettuata dalla Corte d’Appello) sarebbe avvenuto “in applicazione” del combinato disposto delle norme, sia di legge sia di contratto, richiamate nel motivo di ricorso, laddove invece la Corte palermitana si era limitata a richiamare gli articoli violati, censurando tuttavia la gravità in sé della condotta del lavoratore, di talché il motivo di ricorso, concretamente, si traduce nella richiesta di una diversa valutazione circa la gravità della condotta stessa, dalla quale, secondo il lavoratore ricorrente, non sarebbe emerso “alcun nocumento all’organizzazione lavorativa della Fondazione”: circostanza mai emersa nel giudizio, e certamente impossibile da introdurre quale fatto nuovo in sede di legittimità.

Per tutte le ragioni sopra riportate, la Cassazione rigettava il ricorso, valutando definitivamente come legittimo il licenziamento irrogato e condannando il lavoratore al pagamento delle spese processuali.

(1)Cass. 18 settembre 2009 n. 20272.

(2)Cass. 19 maggio 2010 n. 12318.

(3)Sul punto v. anche App. Milano 10 febbraio 2021 n. 1107, in One Legale; Cass. 22 settembre 2017 n. 22508.

 Fonte Norme & Tributi Plus – Il Sole 24ore