È legittimo il licenziamento del lavoratore laddove siano emersi elementi ampiamente idonei a dimostrare che la condotta posta in essere dallo stesso sia grave da ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario e da giustificare ai sensi dell’art. 2119 cod. civ. il recesso intimatogli (Cassazione, sentenza 26 luglio 2021, n. 21356).
Il caso
Nella specie, una Corte d’appello territoriale confermava la pronuncia di primo grado che aveva respinto l’opposizione di un dipendente intesa ad ottenere la declaratoria dell’illegittimità del licenziamento. In particolare, il lavoratore in questione era stato licenziato per aver tenuto un comportamento violento ai danni di un collega, nei confronti del quale aveva rivolto insulti e minacce, causando seria turbativa alle attività operative, e gravi lesioni fisiche.
In sede giudiziale lo stesso dipendente aveva lamentato l’illegittimità del licenziamento in quanto irrogato per motivi discriminatori ed aveva chiesto che fosse ordinata la sua reintegrazione nel posto di lavoro, con tutte le conseguenze risarcitorie; in via subordinata, aveva chiesto che ne fosse dichiarata l’illegittimità per sproporzione e assenza di giusta causa.
Il giudice di prime cure respingeva il ricorso escludendo la natura discriminatoria del licenziamento e ritenendo inammissibile la subordinata domanda di tutela obbligatoria in quanto domanda non fondata sul “medesimo fatto costitutivo” rispetto alla domanda proposta in via principale volta alla declaratoria di nullità del licenziamento perché discriminatorio. Tale pronuncia era confermata in sede di opposizione.
In appello, la Corte considerava risolutiva ai fini dell’infondatezza delle pretese la piena legittimità dell’adottato provvedimento sia sotto il profilo della discriminatorietà, già esaminato dal primo giudice, sia sotto quello della sussistenza della giusta causa. Quanto al primo aspetto, rilevava che, a fronte di una specifica e argomentata motivazione sul punto del licenziamento discriminatorio svolta dal primo giudice, il reclamante non avesse formulato alcuna critica che potesse confutare e contrastare le ragioni addotte dal Tribunale, limitandosi a riproporre i medesimi argomenti, motivatamente disattesi dal primo. In ogni caso, evidenziava l’errore del reclamante nell’aver ritenuto che la pretesa disparità di trattamento consumata ai suoi danni dal datore di lavoro potesse ricondursi al principio di discriminazione.
Quanto al secondo aspetto, riteneva che dalle acquisizioni processuali fossero emersi elementi ampiamente idonei a dimostrare che la condotta posta in essere dal reclamante fosse così grave da ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario e da giustificare ai sensi dell’art. 2119 cod. civ. il recesso intimatogli.
I giudici ritenevano che, il comportamento posto in essere dal lavoratore fosse palesemente inadempiente agli obblighi fondamentali che accedono al rapporto di lavoro e si rivelasse indiscutibilmente contrario agli interessi del datore di lavoro per il ‘disvalore ambientale’ che lo stesso aveva causato così da ledere gravemente e irreparabilmente, il vincolo fiduciario e da configurare il licenziamento come sanzione adeguata.
La decisione della Suprema Corte
I giudici hanno offerto una congrua spiegazione delle ragioni che li hanno portati al giudizio finale circa la legittimità dell’adottato provvedimento espulsivo, traendo spunto sia dalle stesse argomentazioni difensive del lavoratore da cui hanno valutato di evincere che la condotta contestata non era mai stata contestata dallo stesso nella sua oggettività (avendo egli sempre affermato che il diverbio con colluttazione fisica avuto con l’altro dipendente era comunque avvenuto fuori dal luogo di lavoro, con ciò implicitamente ammettendo di aver posto in essere la condotta offensiva ascrittagli) sia dalla circostanza che la dinamica di verificazione del fatto aveva trovato ampio supporto probatorio nelle acquisizioni processuali.
Inoltre, gli stessi giudici hanno valorizzato le dichiarazioni rese dalla persona offesa ed hanno ritenuto che le stesse fossero risultate riscontrate dalle deposizioni rese in sede di sommarie informazioni da altri colleghi di lavoro che le avevano reiterate in giudizio seppur mediante ‘dichiarazioni di impegno’, ritenute utilizzabili ai sensi dell’art. 116 cod. proc. civ. in quanto del tutto coincidenti con quelle dagli stessi già riscontrate dal Giudice di pace.
E’, del resto, principio da tempo consolidato quello secondo il quale la valutazione delle prove, e con essa il controllo sulla loro attendibilità e concludenza, e la scelta, tra le varie risultanze istruttorie, di quelle ritenute idonee ad acclarare i fatti oggetto della controversia, sono rimesse al giudice del merito e sono sindacabili in cassazione solo sotto il profilo della adeguata e congrua motivazione che sostiene la scelta nell’attribuire valore probatorio ad un elemento emergente dall’istruttoria piuttosto che ad un altro. In particolare, ai fini di una corretta decisione adeguatamente motivata, il giudice non è tenuto a dare conto in motivazione del fatto di aver valutato analiticamente tutte le risultanze processuali, né a confutare ogni singola argomentazione prospettata dalle parti, essendo, invece, sufficiente che egli, dopo averle vagliate nel loro complesso, indichi gli elementi sui quali intende fondare il suo convincimento e l’iter logico seguito nella valutazione degli stessi per giungere alle proprie conclusioni, implicitamente disattendendo quelli morfologicamente incompatibili con la decisione adottata. In tema di valutazione delle prove, difatti, nel nostro ordinamento, fondato sul principio del libero convincimento del giudice, non esiste una gerarchia delle prove stesse, nel senso che (fuori dai casi di prova legale) esse, anche se a carattere indiziario, sono tutte liberamente valutabili dal giudice di merito per essere poste a fondamento del suo convincimento.
Circa il diritto di difesa in ambito di licenziamento, nella specie, “deve quindi ritenersi senz’altro legittimamente irrogato l’impugnato licenziamento per giusta causa, non essendo ravvisabili altri vizi di legittimità in riferimento alla procedura che ha condotto all’applicazione della contestata sanzione, non foss’altro che il lavoratore è stato sempre posto in grado di difendersi adeguatamente dalla contestazione degli addebiti oppostagli”.