La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 2246 del 26 gennaio, ha ritenuto legittimo il licenziamento per giustificatezza di un dirigente che aveva espresso pesanti critiche nei confronti dell’azienda datrice di lavoro, stabilendo il mancato diritto all’indennità supplementare prevista dalla contrattazione collettiva.
Nel caso preso in esame, infatti, un dirigente, ritenendo illegittimo il licenziamento comminatogli per giusta causa, adiva il Tribunale per la declaratoria di illegittimità e l’ottenimento di un risarcimento economico per demansionamento e mobbing, oltre che il riconoscimento, essendo Dirigente, del diritto all’indennità sostitutiva del preavviso e all’indennità supplementare. I Giudici di prime cure accoglievano il ricorso limitatamente alla mancanza di giusta causa rigettando le domande risarcitorie. Il Dirigente, non soddisfatto, ricorreva in Appello e la Corte, confermando il giudizio di primo grado, rilevava che le pesanti critiche rivolte nei confronti della società datrice e, precisamente “voi avete tradito la mia fiducia e buona fede e non so quanto potrò andare avanti a sopportare questo vostro comportamento che giudico inqualificabile“, sebbene non integrassero giusta causa di licenziamento, configuravano la nozione di giustificatezza di fonte pattizia collettiva, atteso il ruolo di elevata responsabilità e la conseguente intensità del vincolo fiduciario. L’indennità supplementare, pertanto non era dovuta.
Avverso tale decisione il lavoratore proponeva ricorso in Cassazione lamentando violazione e falsa applicazione del CCNL Dirigenti industria, artt. 19 e 22, in relazione alla nozione di giustificatezza del licenziamento di dirigente sostenendo che la Corte avesse ricondotto alla nozione di giustificatezza del licenziamento un unico episodio di intemperanza. Gli Ermellini ribadivano che ai fini della “giustificatezza” del licenziamento del dirigente, che è un criterio più ampio della giusta causa ex art. 2119 c.c atteso che da essa sono esclusi unicamente il licenziamento discriminatorio e quello arbitrario, è sufficiente una valutazione globale, che escluda l’arbitrarietà del recesso, G dalla quale emerga un “qualsiasi motivo che sorregga, con motivazione coerente e fondata su ragioni apprezzabili sul piano del diritto, il recesso” (Cass. civ., n. 6110/2014).
La Suprema Corte, non discostandosi dall’orientamento consolidato, riteneva che nel caso specifico fosse ravvisabile una motivazione congrua circa la ritenuta giustificatezza del motivo, “idonea a escludere l’arbitrarietà del recesso in ragione della rilevanza del fatto contestato in termini di turbamento del vincolo fiduciario tanto più intenso quanto più è elevato il ruolo (dirigenziale) del dipendente”: da qui, il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.