È illegittimo il provvedimento aziendale di trasferimento del lavoratore che faccia seguito a un ordine giudiziale di reintegrazione nel posto di lavoro, cui il datore, piuttosto, è chiamato a ottemperare «con il riammettere il lavoratore nella stessa sede di lavoro», salvo poterne disporre solo successivamente il trasferimento «nel concorso delle condizioni richieste dalla legge».
Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con ordinanza 18892/2024 del 10 luglio scorso, in relazione a una fattispecie in cui un lavoratore, a seguito della declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli e del conseguente ordine di reintegrazione, era stato trasferito dalla società datrice di lavoro presso una sede diversa da quella in cui operava al momento del recesso. La decisione, per come argomentata, aggrava indubbiamente gli oneri probatori in capo al datore di lavoro.
La Corte di merito, infatti, confermando la sentenza di primo grado, aveva ordinato alla società di riadibire il lavoratore reintegrato alla sede di lavoro originaria, ammettendo la possibilità per il datore di trasferirlo a un’unità produttiva diversa solo successivamente e al ricorrere non soltanto delle «comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive» di cui all’articolo 2103 del Codice civile, bensì anche della «ulteriore prova della inevitabilità del trasferimento sotto il profilo della sicura inutilizzabilità del dipendente» presso la sede di partenza. La decisione veniva quindi impugnata dalla società datrice avanti la Cassazione, per avere la Corte di appello asseritamente errato, da un lato, «a non riconoscere che a seguito di un licenziamento illegittimo si possa trasferire il lavoratore […] a prescindere da qualsiasi reintegra» e, dall’altro, a non ritenere che «le ragioni da dimostrare sono solo quelle che sorreggono una qualsiasi ipotesi ordinaria di trasferimento, mentre non rileva l’esistenza di una ragione che attiene all’impossibilità di reintegrare il lavoratore nella sede di partenza».
La Corte di cassazione, tuttavia, nel richiamare la giurisprudenza di legittimità in materia di trasferimento del lavoratore reintegrato, chiarisce, preliminarmente, che il trasferimento che segua un licenziamento dichiarato illegittimo, con conseguente ordine di reintegrazione, è ben diverso da «una qualsiasi ipotesi ordinaria di trasferimento», come invocato dalla società ricorrente. Se in quest’ultimo caso, infatti, è necessario e sufficiente che sussistano le comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive richieste dall’articolo 2103 del Codice civile, l’ordine di reintegrazione del lavoratore introduce un «ulteriore limite» a quello previsto dalla citata norma civilistica. In particolare, prosegue la Cassazione, ferma la necessaria previa ricollocazione del lavoratore reintegrato nel posto di lavoro da ultimo occupato, il successivo eventuale trasferimento non potrà prescindere dalla prova dell’inutilizzabilità del medesimo lavoratore presso la sede di assegnazione oggetto della reintegra.
La decisione in commento, nell’introdurre questo ulteriore limite e il collegato onere probatorio, rende tuttavia particolarmente gravosa la fattispecie, contraddicendo persino la propria precedente giurisprudenza: sin qui, infatti, il controllo del giudice sul trasferimento del lavoratore reintegrato non doveva presentare i caratteri della inevitabilità (analogo a quello del licenziamento per soppressione del posto di lavoro), ma più correttamente verificare la corrispondenza tra il provvedimento aziendale e le finalità tipiche dell’impresa.