Share:

La querela non fondata nei confronti del datore è illecita se c’è malafede

La denuncia penale di indebita appropriazione del Tfr con la piena consapevolezza della non veridicità della condotta denunciata integra gli estremi della giusta causa di licenziamento, anche a prescindere dall’effettiva sussistenza di un danno; è quanto stabilito dalla Cassazione 30866/2023.

Il fatto a monte della decisione della Corte di legittimità è la denuncia da parte di un lavoratore in sede penale della società datrice di lavoro e del suo legale rappresentante per appropriazione indebita del Tfr.

La Corte di appello aveva ritenuto che tale denuncia riproducesse in maniera dolosa fatti pacificamente non veritieri; il comportamento del lavoratore era diretto non a ottenere l’eventuale punizione penale del colpevole del reato, ma a ledere l’onore e la rispettabilità del legale rappresentante dell’azienda. Il fatto contestato, ovvero l’avere denunciato un’indebita appropriazione del Tfr con la piena consapevolezza della non veridicità della condotta denunciata, per la Corte d’appello integrava gli estremi della giusta causa di recesso anche a prescindere dall’effettiva sussistenza di un danno (la denuncia del lavoratore era stata archiviata definitivamente).

La Corte di cassazione, con la sentenza in commento, conferma e rinforza quanto stabilito dalla Corte di appello.

L’esercizio del potere di denuncia, e in generale del diritto di critica, nei confronti del datore di lavoro non può essere di per sé fonte di responsabilità. Tale principio è stato, tra l’altro, normato dalla recente disciplina del whistleblowing di cui al Dlgs 24/2023, che tutela chi segnala illeciti o irregolarità che possono emergere sul posto di lavoro. Al contrario, esso può divenire fonte di responsabilità qualora il privato faccia ricorso ai pubblici poteri in maniera strumentale e distorta, ossia agendo nella piena consapevolezza dell’insussistenza dell’illecito o dell’estraneità allo stesso dell’incolpato, con l’intenzione di danneggiare il datore di lavoro anziché per rimuovere illegalità o tutelare i diritti del querelante. Questo comportamento costituisce una strumentalizzazione della denuncia, che configura un illecito disciplinare in violazione del dovere di fedeltà previsto dall’articolo 2105 del Codice civile e dei più generali principi di correttezza e buona fede stabiliti negli articoli 1175 e 1375 del Codice civile, e dunque capace di ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario.

L’addebito contestato al lavoratore non è dovuto al reato di “calunnia” o “diffamazione”, ma alla diversa ipotesi di “abuso del processo”, ovvero di strumentalizzazione a fine «puramente emulativo dello strumento della denuncia penale e dei diritti della persona offesa nel procedimento penale medesimo; fine emulativo, ossia esclusivamente diretto ad arrecare danno al datore di lavoro, desunto dalla consapevole omissione di circostanze significative nella descrizione dei fatti con riferimento alle somme già percepite e alla superflua duplicazione di questioni già oggetto di contenzioso civile tra le parti».

Fonte Norme & Tributi Plus – Il Sole 24ore