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Il rifiuto di passare al full time è giustificato motivo di licenziamento se il lavoro parziale è insufficiente

Il rifiuto del lavoratore a tempo parziale di passare a un rapporto di lavoro full time può giustificare il licenziamento individuale se la trasformazione oraria è l’unica soluzione possibile per l’azienda. E il giudice davanti a cui venga impugnato il licenziamento deve distinguere il proprio esame tra accertamento della legittimità della scelta imprenditoriale e l’eventuale lamentata sussistenza di un’illecita ritorsione contro il lavoratore che ha opposto il proprio rifiuto alla trasformazione del contratto.

Con la sentenza n. 29337/2023, la Corte di cassazione civile ha accolto il ricorso dell’azienda che – a fronte del rifiuto del dipendente di passare da un tempo parziale orizzontale a un tempo pieno – lo aveva licenziato assumendo un nuovo lavoratore e contestualmente cancellando la posizione in azienda ricoperta dalla persona con cui rescindeva il contratto di lavoro.

La Corte accoglie il ricorso dell’azienda annullando la sentenza con rinvio ad altro giudice che dovrà verificare la correttezza del licenziamento tenendo conto dei rilievi della Cassazione sulla sentenza annullata e applicando i principi indicati dai giudici di legittimità.

La sentenza annullata
I giudici di appello hanno ritenuto violato il disposto dell’articolo 8, comma 1, del Dlgs 81/2015: “il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, o viceversa, non costituisce giustificato motivo di licenziamento”.

Secondo i giudici vi era stata in effetti una ritorsione da parte dell’azienda che aveva posto a base della propria scelta un’esigenza riorganizzativa che poteva essere soddisfatta in altri modi diversi dal licenziamento del lavoratore part time. L’incremento dell’attività aziendale poteva secondo i giudici di appello essere affrontato con altri mezzi: ad esempio l’assunzione di altro lavoratore part time invece di una sostituzione di una figura con un’altra. Di fatto, lamenta il ricorso accolto, i giudici hanno commesso l’errore di sovrapporre il giudizio sulla fondatezza del giustificato motivo in capo all’azienda che licenzia con quello sulla finalità ritorsiva della rescissione del rapporto di lavoro.

Non sono di fatto elementi sovrapponibili.

Con il primo motivo la ricorrente denuncia che la sentenza impugnata non ha rispettato i limiti del sindacato giudiziale sulle decisioni organizzative dell’imprenditore poste a base del licenziamento individuale dove affermava che la riorganizzazione necessaria a fronteggiare l’incremento di attività dovuto all’acquisizione di nuovi clienti e la conseguente non contingente situazione di insufficienza delle risorse fosse di fatto pretestuosa perché affrontabile con altre soluzioni. Ciò è stato ritenuto eccedere dal perimetro di legittimità del giudizio del giudice del lavoro sulle scelte imprenditoriali.

Per quanto riguarda, invece, l’imputata ritorsività del licenziamento la Cassazione ricorda al giudice del rinvio che non è legittima la sentenza impugnata dove non dimostra che la ritorsione sia stato il vero motivo fondante della scelta di licenziare il dipendente che si era rifiutato di abbandonare il rapporto a tempo parziale per aderire alla richiesta di un tempo pieno.

Illegittimità del motivo oggettivo del licenziamento a fronte di scelte aziendali ritenute dal giudice pretestuose e ritorsività del medesimo licenziamento sono valutazioni che vanno tenute distinte e separate ai fini della prova dell’abuso datoriale e non può l’una discendere dall’altra fino alla sovrapposizione.

Infatti, per quanto riguarda l’aspetto ritorsivo la Corte d’appello doveva dimostrare – come indica la Cassazione – che questo deve risultare dall’esame del giudice “unico e determinante” motivo illecito ai fini dell’annullamento del licenziamento con la conseguente indennità risarcitoria e la reintegrazione nel posto di lavoro.

Al contrario la decisione ora annullata aveva prima affermato l’assenza di una legittima giustificazione della scelta datoriale e da questa aveva fatto discendere la prova della ritorsività con le medesime circostanze valorizzate per dichiarare l’illegittimità del motivo oggettivo addotto.

Infine la Cassazione accoglie il motivo avanzato dall’impresa contro il ragionamento dei giudici di appello sull’assenza di giustificato motivo per il licenziamento fondato sul fatto che a fronte del richiesto incremento dell’orario di lavoro da venti a quaranta o trentasei ore settimanali rifiutato dal lavoratore questi si era comunque dichiarato disponibile a svolgere sporadicamente qualche ora di lavoro supplementare e che la figura con cui era stato sostituito il dipendente licenziato era stata assunta con contratto di lavoro part time al 90 per cento. In fondo la Cassazione aderisce al rilievo datoriale secondo cui in una tale situazione e vista la disponibilità del lavoratore part time a continuare di fatto a occuparsi solo dei clienti già assegnati durante il suo rapporto part time non si poteva contestare la scelta di risolvere il rapporto di lavoro e affermare la possibilità per il datore di lavoro di ripartire tra i due dipendenti il carico di lavoro supplementare collegato all’assunzione di nuova clientela.