Il tema della durata del periodo di prova nei contratti a termine è stato affrontato dall’art. 13 del c.d. “Collegato Lavoro” che sta terminando il suo lungo iter parlamentare con l’esame del Senato.
La regolamentazione precedente: Decreto Legislativo n. 104/2022
Per la verità già l’art. 7 del decreto legislativo n.104/2022 aveva affrontato l’argomento: di conseguenza, prima di entrare nel merito delle novità che, a breve, saranno introdotte, reputo necessario riepilogare quanto il predetto art. 7 aveva affermato:
- La durata del periodo di prova nei rapporti di lavoro subordinato (sia a tempo indeterminato che a termine) non può essere superiore a sei mesi, fatto salvo il limite minore previsto dalla contrattazione collettiva. In questo caso non c’è nulla di nuovo, atteso che per un vecchio indirizzo espresso dalla Corte Costituzionale, questa era già la durata massima prevista;
- Nei contratti a tempo determinato, la durata del periodo di prova (che deve risultare da atto scritto, prima dell’inizio di qualsiasi prestazione lavorativa e con l’indicazione specifica delle mansioni da svolgere) deve essere ridotta in maniera proporzionale in relazione alla durata ed alle mansioni da svolgere correlate alla natura dell’impiego (passaggio molto importante non seguito integralmente dal Legislatore nel c.d. “Collegato Lavoro”);
- In caso di rinnovo di un contratto a termine per le stesse mansioni il rapporto di lavoro non può essere soggetto ad un nuovo periodo di prova;
- La malattia, l’infortunio, il congedo obbligatorio per maternità o paternità, comportano il prolungamento del periodo di prova per una durata corrispondente all’assenza;
- Nei rapporti concernenti le Pubbliche Amministrazione la materia è regolamentata dall’art. 17 del DP.R. n. 487/1994.
La necessità di un intervento sulla materia era, nella sostanza, determinata dal fatto che, mancando una riduzione proporzionale del periodo di prova nei contratti a tempo determinato, si applicava come periodo quello previsto per i contratti a tempo indeterminato con un evidente paradosso: molti rapporti, soprattutto se di breve durata, si svolgevano sempre “in prova”.
Il nuovo intervento dell’Art. 13 del Collegato Lavoro 2024
L’art. 13 della emananda disposizione inserita nel “Collegato Lavoro” inserendo alcune frasi all’interno del comma 2 dell’art. 7, del decreto legislativo n. 104/2022, afferma che ferme restando le disposizioni più favorevoli previste dalla contrattazione collettiva applicata dal datore di lavoro, la durata del periodo di prova è stabilita in un giorno di effettiva prestazione ogni quindici di calendario a partire dal giorno di inizio del rapporto. In ogni caso la durata del periodo di prova per i rapporti di durata non superiore a sei mesi non può essere inferiore a due giorni e superiore a quindici, mentre per quelli di durata superiore ai sei mesi e, comunque, inferiori a dodici mesi, il limite massimo è fissato in trenta giorni.
Fin qui il testo ora all’esame del Senato che suscita alcune riflessioni sulla durata del patto di prova.
Il Legislatore è intervenuto perché la contrattazione collettiva, nella stragrande maggioranza dei casi, non ha disciplinato la durata del periodo di prova nei contratti a tempo determinato e per i singoli datori di lavoro era abbastanza difficile procedere senza alcun punto di riferimento. È auspicabile che l’autonomia delle parti sociali intervenga sollecitamente seguendo, ove possibile, il criterio fissato dall’art. 7 concernente una riduzione proporzionale del periodo non soltanto “orizzontale” (come sembra abbia fatto l’Esecutivo “sposando” tale tesi con una riduzione generale della durata) ma anche “verticale”, ossia tenendo conto delle mansioni e della professionalità. Forse la norma, che ha carattere generale, non poteva essere scritta in modo diverso (non essendo possibile intervenire all’interno delle variegate professionalità della contrattazione collettiva).
La disposizione fa riferimento “tout court” alla contrattazione collettiva senza ulteriori specificazioni ne’ richiami all’art. 51 del n. 81/2015 che identifica tra gli abilitati alla contrattazione le sole organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e le loro articolazioni aziendali o la RSU: di conseguenza, parrebbero valide le regole stabilite anche da altre associazioni che non presentano tali caratteristiche.