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Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo non è legittimo se il datore di lavoro, dopo aver dichiarato la soppressione della posizione organizzativa, non offre al dipendente la ricollocazione presso altre mansioni esistenti in azienda, anche se queste sono inferiori oppure a tempo determinato. Con questa interpretazione la Corte di cassazione ( ordinanza 18904/2024) prosegue nel percorso, ormai costante, di progressivo irrigidimento degli spazi per recedere dal rapporto di lavoro per motivi organizzativi.

Un datore di lavoro ha avviato la procedura di conciliazione preventiva presso l’Ispettorato del lavoro e poi licenziato un dipendente per giustificato motivo oggettivo, dichiarando l’impossibilità di ricollocarlo in posizioni di lavoro equivalenti. Il licenziamento è stato considerato valido dal Tribunale e dalla Corte d’appello, secondo i quali sul tema del repêchage sarebbe sufficiente dimostrare che la società non ha assunto personale a tempo indeterminato per posizioni equivalenti.

L’ordinanza della Cassazione rigetta questa lettura, ritenendola non conforme all’ordinamento, per come lo stesso si è sviluppato in virtù della giurisprudenza anche recente della stessa Corte e, a sostegno di questa conclusione, vengono elencati diversi motivi.

In primo luogo, secondo la Corte l’onere della prova del datore circa l’impossibilità di ricollocare il dipendente va esteso alle mansioni inferiori: pertanto, il datore deve provare che, al momento del licenziamento, non esisteva nessuna altra posizione lavorativa in cui potesse utilmente ricollocarsi il licenziando, tenuto conto dell’organizzazione aziendale esistente in quel momento (tra i vari precedenti, Cassazione 13116/2015).

In coerenza con questa lettura, la Corte ritiene che vada dato rilievo anche alle posizioni esistenti in mansioni inferiori e, in tale ipotesi, il datore di lavoro, prima di intimare il licenziamento avrebbe dovuto offrire la mansione alternativa anche inferiore al dipendente, prospettandone il demansionamento, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, e avrebbe potuto recedere dal rapporto solo ove tale soluzione non fosse accettata dal lavoratore.

In altre parole, per sottrarsi all’annullamento del licenziamento, il datore avrebbe dovuto allegare e provare, sulla base di circostanze oggettivamente riscontrabili e avuto riguardo alla specifica condizione e alla intera storia professionale del dipendente, che quest’ultimo non aveva le competenze professionali richieste per l’espletamento delle stesse mansioni.

Un punto di vista rafforzato da un altro concetto: secondo la Corte, non ha rilevanza il fatto che esistessero solo mansioni operaie, invece che impiegatizie (come quelle del licenziato), in quanto dovrebbe essere dimostrato che il lavoratore non potesse svolgere tali mansioni inferiori.

La Corte conclude, quindi, che determina una violazione dell’articolo 3 della legge 604/1966 il licenziamento intimato per motivo oggettivo quando esistono, al momento del recesso, delle posizioni di lavoro alternative ancorché in mansioni inferiori oppure a tempo determinato, e non viene effettuata alcuna offerta di lavoro per la ricollocazione in queste mansioni.

Una lettura non nuova e, anzi, ormai in via di consolidamento nella giurisprudenza di legittimità, che ha un impatto molto problematico sull’organizzazione aziendale: il cambio di mansioni – che siano equivalenti o, a maggior ragione, inferiori – non è affatto agevole, come sembra presupporre con eccessivo ottimismo questo indirizzo giurisprudenziale.

Fonte Norme & Tributi Plus – Il Sole 24ore