Contestazione disciplinare o dimissioni per fatti concludenti?
Nel menu delle possibilità che il diritto del lavoro offre all’azienda, siamo di fronte a due portate principali di tutto rispetto.
La recente riforma introdotta dall’articolo 19 del Collegato Lavoro (Legge n. 203/2024 entrata in vigore in data 12 gennaio 2025) consegna, finalmente, un disposto normativo che muove dalla volontà di arginare un fenomeno fortemente censurabile ma benedetto dal Ministero del Lavoro (risposta interpello n°29/2013 – risposta interpello n°13/2015) e INPS (circolari n. 140/2012, n. 142/2012 e n. 44/2013).
Invero, come noto, è ora possibile, nel rispetto della procedura comunicativa all’Ispettorato territoriale del Lavoro competente per luogo di svolgimento della prestazione (vedasi nota dell’INL n°579 del 22 gennaio 2025) riuscire a considerare dimissionario per fatti concludenti quel collaboratore che:
- non solo si assenta dal luogo di lavoro per il termine previsto dalla contrattazione collettiva (che consegnerebbe una ipotesi di licenziamento);
- ma, congiuntamente a quanto sopra, non si preoccupa di giustificare né avvisare della mancata prestazione;
Ma quindi la mera assenza dal luogo di lavoro è bastevole per determinare una dimissione o, nei casi di “incertezza” conviene comunque procedere con una contestazione disciplinare il cui esito sarà tutt’altro che dimissorio?
Proviamo a capirlo.
Contrasto al fenomeno. Dalla magistratura alla norma
La magistratura, sul punto, non è rimasta a guardare. I giudici di prime cure hanno affrontato il tema in una duplice visione.
Da una parte, analizzando la debenza o meno del ticket NASpI laddove il comportamento elettivo del lavoratore (ovvero la scelta di non presentarsi a lavoro) recava come conseguenza il recesso a cura del datore di lavoro che, giocoforza, doveva procedere con il pagamento del c.d. maxi ticket ex legge n°92/2012.
In tal senso vedasi la sentenza n°106 del 2020 del Tribunale di Udine.
In un caso di assenza ingiustificata il giudice friulano si era espresso favorevolmente alla cosiddetta compensazione atecnica tra il contributo NASpI e la retribuzione dovuta dall’ex-dipendente, a titolo di risarcimento del danno in favore del datore di lavoro (violazione ex. articoli 1175 e 1375 del Codice Civile, rispettivamente dovere di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto).
Dall’altra parte è stato esaminato il comportamento (e non la conseguenza) del lavoratore, qualificando l’assenza ingiustificata come atto di risoluzione consensuale o dimissorio de facto.
Qui possiamo annoverare:
– Sentenza del Tribunale di Monza del 2 aprile 2019. Il Giudice, in seguito ad una prolungata assenza ingiustificata del lavoratore (peraltro rafforzata dalla successiva instaurazione di un nuovo rapporto di lavoro con un’altra azienda), aveva ritenuto il comportamento come concludente e, dunque, il rapporto è stato dichiarato cessato per manifesta volontà del lavoratore.
– Sentenza del Tribunale di Udine del 27 maggio 2022. Il fatto concerneva l’assenza ingiustificata di un lavoratore che, malgrado i ripetuti tentativi di comunicazione da parte della società, risultava assente ormai da più di sei mesi (un periodo di tempo di gran lunga superiore alle ordinarie previsioni contenute nei contratti collettivi in materia di risoluzione dal rapporto di lavoro senza obbligo di preavviso). Il tutto preordinato, ovviamente, all’ottenimento dell’ammortizzatore sociale per la cessazione del rapporto. Nell’ordinanza è stato ritenuto come la fattispecie in esame sia equiparabile alle dimissioni o risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, senza dunque che l’ex dipendente potesse beneficiare della NASpI e, di conseguenza, ritenendo la società esonerata dal versamento del cosiddetto “ticket di licenziamento”.
Interviene poi la norma.
L’art 19 della Legge n°203/2024 introduce nell’art 26 del d.lgs 151/2001 il comma 7 bis. “In caso di assenza ingiustificata del lavoratore protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicato al rapporto di lavoro o, in mancanza di previsione contrattuale, superiore a quindici giorni, il datore di lavoro ne dà comunicazione alla sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro, che può verificare la veridicità della comunicazione medesima. Il rapporto di lavoro si intende risolto per volontà del lavoratore e non si applica la disciplina prevista dal presente articolo. Le disposizioni del secondo periodo non si applicano se il lavoratore dimostra l’impossibilità, per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro, di comunicare i motivi che giustificano la sua assenza“.
Per poter comprendere appieno la fattispecie, deve considerarsi come:
- Per prima cosa la norma obblighi il datore di lavoro, nel caso in cui si constati una “assenza ingiustificata del lavoratore protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicato al rapporto di lavoro o, in mancanza di previsione contrattuale, superiore a quindici giorni” ad effettuare una comunicazione all’ITL (in effetti il termine “ne dà comunicazione” non lascia spazio a facoltà). Tale lettura normativa è in realtà contraddetta dalla nota dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro del 22 gennaio 2025 che, contrariamente alla lettera della legge, sembra consentire una facoltà di comunicazione a cura del datore di lavoro.
- Successivamente prescrive una facoltà dell’ispettorato (“può verificare“) in relazione al controllo sia dei fatti (assenza o meno) che della mancata comunicazione dei motivi dell’assenza.
Contestazione o no? Quale scelta
Ed è qui il punto. La fattispecie delle dimissioni per fatti concludenti, al di là della procedura disposta con l’organo di vigilanza, può essere considerata tale solo in presenza di due fattori congiunti ovvero:
- l’assenza dal lavoro
- e l’assenza di informazioni fornite per giustificare l’assenza.
La vita, come sappiamo, non è mai lineare. Quindi l’interprete si troverà sempre nell’imbarazzo tipico del risiko ovvero “attacco la kamchatka o no“?
Proviamo a fare delle simulazioni:
- la procedura di dimissioni per fatti concludenti potrà essere attività, senza grosse tematiche, allorquando non vi sia alcuna comunicazione preventiva o posteriore, all’azienda o a colleghi, che possano far intuire un motivo per legittimare (o meno) la mancata prestazione;
- diversamente, la classica richiesta di ferie non autorizzata, il messaggio whatsapp che “preavvisa” una malattia poi non documentata o il mancato rientro da ferie all’estero cui è seguita la contrazione di una patologia da chiarirsi (ma senza documenti) sembrano uscire dalla fattispecie normativa dell’assenza di informazioni e, quindi, portano ad una strategica necessità di contestazione disciplinare;
- sia chiaro: la comminazione di una contestazione disciplinare si potrebbe conciliare anche con un successivo percorso dimissorio per fatti concludenti. Tale circostanza potrebbe essere preferibile per non vedersi pregiudicato alcun percorso risolutorio.
Rimane sempre un enorme problema.
Se, in caso di trasmissione all’ITL del modello per la dimissione de facto, l’ispettorato ritenesse non sussistente la fattispecie risolutiva, potrà il datore di lavoro (che ricordiamolo avrà già cessato il rapporto) procedere con un ricorso? La risposta sembra poter essere affermativa, non potendo supporre che non sia possibile contestare il giudizio dell’ispettore (nel diritto di difesa ex art 24 della Carta Costituzionale).
Peraltro, diversamente, se non si ritenessero sussistenti le dimissioni per fatti concludenti e l’azienda, puntando tutto sull’articolo 19 della Legge 203 del 2024, non avesse proceduto con una contestazione per la mancata presenza (che è effettiva), come succederà?
Molto dipenderà se la mancata prestazione fosse ancora perpetrata o se fossero sopraggiunte comunicazioni del lavoratore che sostiene proprie ragioni, magari dichiarandosi disponibile a riprendere il lavoro. Come diceva la cara Lucy di quell’opera d’arte che risponde al nome di Peanuts “il futuro non è più quello di una volta“…