Nel caso in esame, una società leader nella corrispondenza e nella logistica nonché nei servizi di monetica, finanziari e assicurativi aveva avviato un procedimento disciplinare nei confronti di una propria dipendente in stato di gravidanza contestandole: “di aver dato disponibilità per una irregolare collaborazione con uno o più agenti di un operatore telefonico concorrente per consentire agli stessi di perseguire e conseguire i propri obiettivi commerciali e di vendita, fornendo su loro richiesta ed in modo irregolare e scorretto SIM (…) intestate a terzi clienti degli stessi agenti concorrenti che le utilizzavano come ponte verso le loro offerte; di aver proceduto irregolarmente (senza la presenza del cliente, senza la identificazione dello stesso cliente e senza raccogliere le sue firme) a formare un contratto (…), con il cliente ‘ignaro’ di questa operatività; di aver successivamente consegnato agli agenti ‘concorrenti’, anziché – come doveroso- ai clienti sottoscrittori del contratto, la SIM emessa a nome del terzo e il contratto; che la descritta operatività avrebbe risposto a logiche commerciali della concorrenza e sarebbe stata finalizzata a far figurare un volume di affari e vendite di SIM (…) attribuite alla Sua persona in qualità di Operatore Vendite” della società datrice di lavoro.
All’esito del procedimento disciplinare in questione la lavoratrice era stata licenziata per giusta causa ed il relativo provvedimento era stato impugnato giudizialmente.
La Corte d’appello territorialmente competente, nel confermare la pronuncia di primo grado, aveva considerato la condotta tenuta dalla lavoratrice di una gravità tale da integrare la deroga al divieto di licenziamento ex art. 54, comma 3, lett. a), del D.Lgs n. 151/2001 e, pertanto, ascrivibile alle condotte per le quali il CCNL aveva previsto la massima sanzione.
La lavoratrice soccombente decideva di ricorrere in cassazione, affidandosi a sette motivi, a cui resisteva la società con controricorso.
La decisione della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione investita della causa sottolinea che la decisione della Corte distrettuale è in linea con la giurisprudenza di legittimità secondo la quale “(…) la colpa grave della lavoratrice madre, ai fini del recesso, non può ritenersi integrata dalla sussistenza di un giustificato motivo soggettivo, ovvero di una situazione prevista dalla contrattazione collettiva quale giusta causa idonea a legittimare la sanzione espulsiva, essendo invece necessario – in conformità a quanto stabilito nella sentenza della Corte costituzionale n. 61 del 1991 – verificare se sussista quella colpa specificamente prevista dalla suddetta norma (ndr art. 54, comma 3, lett. a), del D.Lgs. 151/2001) e diversa, per l’indicato connotato di gravità, da quella prevista dalla disciplina pattizia per i generici casi d’inadempimento del lavoratore sanzionati con la risoluzione del rapporto” (cfr. Cass. 19912/2011 e 2004/2017).
Evidenzia, ancora la Corte di Cassazione, che la verifica volta ad appurare l’applicabilità della normativa che rende inoperante il divieto di licenziamento della lavoratrice madre in caso di “colpa grave” deve essere eseguita tenendo conto del suo comportamento complessivo, in relazione alle particolari condizioni psico-fisiche legate allo stato di gestazione e di maternità. Condizioni che possono assumere rilievo ai fini dell’esclusione della gravità del comportamento sanzionato solo qualora abbiano operato come fattori causali o concausali dello stesso (cfr. Cass. n. 16746/2012 e Cass. n. 16060/2004).
Orbene, proprio partendo da questi principi:
– è stato escluso che le condotte contestate “fossero state influenzate dallo stato di maternità, né che la lavoratrice fosse affetta da un malessere fisico che le avesse impedito di comprendere la gravità delle violazioni procedurali commesse e l’effetto delle proprie condotte” ed
– al fine di connotarne la gravità sono stati valorizzati elementi quali: il ruolo attivo, e non meramente esecutivo, della lavoratrice nel compimento delle operazioni; il danno economico per la società rappresentato dall’erogazione in suo favore di un premio; l’avere favorito imprese terze che operavano in concorrenza con la sua datrice di lavoro; la violazione, nelle procedure aziendali, di disposizioni normative inderogabili “poste a tutela di interessi pubblici, ordine pubblico e pubblica sicurezza”; il rilascio di false attestazioni sulla identificazione del cliente; la non episodicità delle condotte, proseguite “nella collaborazione (…) anche da casa durante il periodo di gravidanza a rischio”.
In conclusione, la condotta assunta dalla lavoratrice è stata talmente grave da non poter essere riconducibile alle infrazioni punite dal CCNL con misure conservative; detta condotta non ha consentito la prosecuzione neanche provvisoria del rapporto di lavoro intercorrente con la società datrice di lavoro.
Pertanto, la Corte di Cassazione conclude per il rigetto del ricorso presentato dalla lavoratrice e con la sua condanna al pagamento delle spese di lite.