A fronte di una disabilità grave del dipendente – nel caso specifico una malattia oncologica -, il datore di lavoro deve cercare un “ragionevole accomodamento” volto al “miglior impiego” della persona in considerazione delle “sue patologie e limitazioni”. L’eventuale rifiuto di un simile “accomodamento” costituisce un atto discriminatorio. È dunque affetto da nullità il licenziamento comminato dall’azienda basato unicamente sulla circostanza che il dipendente non ha dimostrato che le sue condizioni di salute gli impedissero la ripresa del lavoro nella sede di assegnazione prima dell’inizio della malattia. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, ordinanza n. 30080 del 22 novembre 2024, accogliendo il ricorso del lavoratore.
La Corte di Appello di Bologna, invece, aveva confermato la legittimità del licenziamento per assenza ingiustificata. Al lavoratore, che aveva maturato il periodo massimo di comporto, era stata concessa aspettativa non retribuita e, allo scadere di questo ulteriore periodo, la società lo aveva invitato a riprendere servizio presso la sede di Guastalla, ricevendo dapprima un argomentato diniego e, a fronte di due ulteriori inviti, nessun riscontro. Il dipendente invalido al 100% e portatore di handicap, aveva chiesto più volte il trasferimento a Napoli o altra città vicina. Secondo la Corte territoriale però il lavoratore non aveva dimostrato l’impossibilità della prestazione nella vecchia sede.
Per la Sezione lavoro tale assunto “non è conforme allo statuto di speciale protezione che l’ordinamento interno e comunitario stabilisce per le persone con disabilità”. In particolare, a seguito di una condanna per inadempimento nel recepimento della direttiva 2000/78/CE, il Dl 28 giugno 2013, n. 76 ha inserito nel testo dell’articolo 3 del Dlgs n. 216 del 2003, il comma 3 bis che recita: “Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità…”. Secondo la Convenzione (articolo 2) integra una ”discriminazione fondata sulla disabilità” anche il semplice rifiuto da parte del datore “di un accomodamento ragionevole”; per tale intendendosi tutte “le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali”.
E allora, la Corte territoriale, nell’applicare il disposto dell’articolo 1460, comma 2, c.c., secondo cui il lavoratore può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto, non risulti contrario a buona fede, avrebbe dovuto tenere in adeguato conto “della entità dell’inadempimento datoriale in relazione al complessivo assetto di interessi regolato dal contratto”, così come “della concreta incidenza del detto inadempimento datoriale su fondamentali esigenze di vita e familiari del lavoratore”.
Non avrebbe dunque dovuto “prescindere”, conclude la Cassazione, dalla consistenza dell’obbligo di accomodamenti ragionevoli gravanti sul datore di lavoro nei confronti della persona con disabilità, dotata di peculiare protezione a salvaguardia di fondamentali esigenze di vita e di salute, tanto che il rifiuto di accomodamento ragionevole costituisce atto discriminatorio, come tale affetto da nullità, di cui certo il datore di lavoro non può trarre vantaggio in alcun modo; solo in tale contesto la Corte bolognese avrebbe dovuto valutare l’entità dell’inadempimento della società e verificare se il rifiuto opposto dal dipendente fosse o meno contrario a buona fede.
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Fonte Norme & Tributi Plus – Il Sole 24ore