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Il jobs act cambiato dai giudici: la reintegra torna il rimedio per i licenziamenti illegittimi

A metà luglio, con le sentenze 128/2024 e 129/2024, la Corte costituzionale ha assestato l’ultima picconata al Jobs act, riportando le lancette dell’orologio al 1970. Con la riforma Fornero (legge 92/2012) e con il Jobs act (decreto legislativo 23/2015), si è tentato di passare dal “sistema generalizzato” dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, in cui la tutela reintegratoria veniva applicata a ogni ipotesi di licenziamento illegittimo, a un quadro sanzionatorio caratterizzato dalla sua marginalizzazione e dal corrispondente ampliamento della tutela indennitaria: non c’è dubbio che gli ultimi tre interventi correttivi (contando anche la sentenza 22/2024) della Corte costituzionale sul Jobs act di quest’anno hanno tracciato un’esplicita inversione di rotta, riassegnando alla reintegrazione un ruolo centrale.

Nell’intento di uniformare la tutela «ingiustificatamente differenziata» di «situazioni del tutto identiche, o almeno omogenee», con la pronuncia 128/2024 la Consulta ha esteso la sanzione della reintegrazione – già prevista per le parallele ipotesi del licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo soggettivo – anche al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ove sia stata direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro; con la 129/2024, ha previsto il diritto del dipendente a essere reintegrato nel posto di lavoro nei casi in cui il fatto all’origine del licenziamento, pur disciplinarmente rilevante, sia punito dalla contrattazione collettiva con una sanzione meramente conservativa.

Per il tramite, dunque, nell’un caso, della sostanziale equiparazione sanzionatoria tra il licenziamento per ragioni economiche e quello disciplinare e, nell’altro, della riaffermazione dell’autonomia collettiva quale fonte primaria di disciplina del rapporto di lavoro, la Consulta – (ancora una volta) con animus demolitorio – ha ribaltato la ratio delle scelte politiche operate nel 2015: se, infatti, l’obiettivo dichiarato dal legislatore quasi un decennio fa era quello di circoscrivere l’applicazione della tutela reintegratoria a ipotesi marginali, seppur gravi, individuando nel risarcimento del danno il rimedio ordinario a fronte del recesso datoriale, è dato oggi assistere al definitivo venir meno del “nocciolo duro” del Jobs act e al conseguente allineamento alla disciplina dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori.

E un tale riavvicinamento, d’altronde, è stato favorito dalla sentenza 22/2024 con cui la Consulta, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’articolo 2, comma 1, del Dlgs 23/2015, limitatamente alla parola “espressamente”, ha rimosso, quanto alla fattispecie del licenziamento nullo, la limitazione della tutela reintegratoria ai soli «casi di nullità espressamente previsti dalla legge».

Dunque,

  1. se nel caso di licenziamento affetto da «nullità espresse e nullità che tali non sono», nonché di licenziamento discriminatorio e per sopravvenuta inidoneità o superamento del periodo di comporto, al lavoratore spetta la reintegrazione piena;
  2. se nel caso di licenziamento disciplinare e per giustificato motivo oggettivo – ove si fondino su un fatto insussistente – nonché di licenziamento disciplinare, ove il fatto contestato sia punito dal contratto collettivo con una sanzione conservativa, si applica la tutela reintegratoria attenuata;
  3. oggi la tutela indennitaria introdotta dal Jobs act (e già pesantemente rimodulata sempre dalla Consulta nel 2018) rimane circoscritta ai soli licenziamenti “semplicemente” privi di giusta causa o di giustificato motivo e a quelli affetti da vizi formali o procedurali: tuttavia purché non si ricada in una delle fattispecie reintegratorie di cui sopra (si veda la tabella riassuntiva allegata).

A questo punto, dell’assunto per cui la reintegrazione “non costituisce il solo e indefettibile modello di tutela del prestatore” – e, più in generale, del testo originario del Jobs act, che di tale assunto si era fatto portavoce – rimane ben poco. Così poco da risultare difficile comprendere l’utilità del referendum abrogativo fortemente voluto dalla Cgil.

Va infine ricordato l’intervento di pochi giorni fa sul Jobs act contenuto nello schema di Dlgs “Salva infrazioni” approvato in prima lettura dal Governo settimana scorsa. In risposta a una procedura di infrazione avviata dall’Unione europea, si prevede di eliminare il tetto di dodici mensilità al risarcimento da riconoscere al lavoratore in caso di contratti a termine dichiarati illegittimi e trasformati in indeterminati dal giudice (articolo 28 del Dlgs 81/2015).

Fonte Norme & Tributi Plus – Il Sole 24ore