In linea di principio, lo stato di malattia non permette lo svolgimento di alcuna attività lavorativa durante l’assenza. Tuttavia è possibile svolgere un’altra attività lavorativa (o extralavorativa, come ad esempio quelle sportive e amatoriali), purché questo comportamento non evidenzi la fraudolenta simulazione della malattia o sia di per sé idoneo a pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore.
In questi termini si è espressa la Cassazione nella sentenza 5002/2024, con la quale la Corte ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa inflitto al dipendente addetto allo scarico dei bagagli di un aeroporto, che era stato filmato dall’investigatore privato, ingaggiato dal datore di lavoro, mentre svolgeva l’attività di istruttore di kick boxing, nonostante si trovasse in malattia e i certificati medici mostrassero un progressivo peggioramento per le condizioni del suo arto superiore destro.
Il datore di lavoro ha l’onere di provare l’incidenza della diversa attività nel ritardare o pregiudicare la guarigione, ai fini del rilievo disciplinare di tale attività nel corso della malattia. Dal canto suo, il lavoratore ha invece l’onere di provare la compatibilità dell’attività svolta con le proprie condizioni di salute (in particolare con la malattia che impedisce la prestazione lavorativa) e, conseguentemente, l’inidoneità di tale attività a pregiudicare il recupero delle normali energie lavorative.
A sostegno della sua decisione, nella sentenza citata, la Corte affermava esservi prova dello svolgimento in via continuativa dell’attività di istruttore di kick boxing da parte del lavoratore, durante l’assenza per malattia, come si evinceva dalle risultanze testimoniali addotte dalla società e dalla relazione investigativa prodotta.
La raccolta delle prove
Con uno specifico motivo di impugnazione, il lavoratore lamentava violazione o falsa applicazione di legge per avere la Corte d’appello utilizzato ai fini della decisione il dossier redatto dall’agenzia investigativa, nonostante il formale disconoscimento da parte del lavoratore stesso.
Anche questo motivo, come tutti gli altri, è stato dichiarato inammissibile, da un lato, per la complessità promiscua delle censure e, dall’altro lato, in quanto sollecitava alla Corte un apprezzamento delle modalità con cui le investigazioni sono state condotte, che invece è riservato al giudice del merito.
La Corte territoriale aveva peraltro fondato il proprio convincimento anche sulla deposizione testimoniale dell’investigatore, che aveva confermato integralmente la relazione, sia quanto a paternità, sia quanto a contenuto.
La censura investiva peraltro non un fatto inteso in senso storico e con valenza decisiva, ma elementi probatori suscettibili di valutazione, come appunto la relazione investigativa, rientrante fra le prove atipiche liberamente valutabili nel giudizio civile in base agli articoli 116 e 421 del Codice di procedura civile, di cui il giudice è legittimato ad avvalersi, atteso che nell’ordinamento processuale vigente manca una norma di chiusura sulla tassatività dei mezzi di prova (da ultimo, Cassazione, 7712/2023).
Nella specie, la relazione scritta redatta da un investigatore privato è stata utilizzata correttamente dai giudici di merito come prova atipica, avente valore indiziario, ossia è stata valutata unitamente ad altri elementi di prova ritualmente acquisiti.
Ammesse le fotografie
Sotto ulteriore profilo, occorre rimarcare che le relazioni investigative erano formate anche da materiale fotografico, la cui utilizzabilità a fini decisori è espressamente riconosciuta dall’articolo 2712 del Codice civile, anche in presenza di un disconoscimento della parte contro la quale il materiale fotografico viene prodotto. Neppure il disconoscimento, cioè, esclude l’autonoma valutazione della veridicità del materiale fotografico da parte del giudice, mediante il ricorso ad altri mezzi probatori. In particolare, la Cassazione ha chiarito che, in tema di efficacia probatoria delle riproduzioni fotografiche, il disconoscimento delle fotografie non produce gli stessi effetti del disconoscimento delle scritture private previsto dall’articolo 215, comma 2 del Codice di procedura civile, perché mentre quest’ultimo, in mancanza di richiesta di verificazione e di esito positivo, preclude l’utilizzazione della scrittura prodotta in giudizio, il primo non impedisce che il giudice possa accertare la conformità all’originale anche attraverso altri mezzi di prova, comprese le presunzioni (Cassazione, 13519/2022).
LE PRONUNCE
Stop all’attività pesante per chi ha già problemi fisici
In tema di rapporto di lavoro, la violazione dei doveri generali di correttezza e di buona fede sussiste quando lo svolgimento di un’altra attività durante la malattia – valutato in relazione alla natura e alle caratteristiche della malattia, nonché alle mansioni svolte nell’ambito del rapporto – sia tale da pregiudicare o ritardare, anche potenzialmente, la guarigione e il pronto rientro al lavoro. La valutazione deve essere compiuta ex ante, ossia con riferimento al momento in cui quell’attività viene svolta, sicché ai fini di questa potenzialità, la tempestiva ripresa del lavoro in concreto resta irrilevante. È dunque legittimo il licenziamento per giusta causa inflitto al dipendente addetto allo scarico dei bagagli filmato dall’investigatore privato ingaggiato dal datore mentre svolge l’attività di istruttore di kick boxing, nonostante si trovi in malattia e i certificati medici mostrino un progressivo peggioramento per le condizioni del suo arto superiore destro.
Cassazione civile, sez. lavoro, sent. 5002 del 26/2/2024
Legittimo il licenziamento per chi lavora in un negozio
È legittimo il licenziamento del lavoratore che, pur essendo in malattia, viene trovato ad aiutare per ben due giorni nel negozio della moglie, risultando decisiva la circostanza che l’impegno del lavoratore era astrattamente idoneo a ritardare la sua ripresa fisica e quindi a posticiparne il rientro in azienda.
Cassazione civile, sez. lavoro, sentenza 2516 del 26/1/2024
Quando la condotta viola la buona fede
Lo svolgimento di un’altra attività lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, configura violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, anche nel caso in cui la stessa, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio del lavoratore.
Cassazione civile, sez. lavoro, ord. 12994 del 12/5/2023
L’attività che compromette la ripresa è un illecito grave
In via generale, svolgere in costanza di malattia una attività lavorativa o extralavorativa anche solo potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro in servizio è un illecito comunemente considerato grave, e potenzialmente risolutorio. È implicato negli obblighi di diligenza e fedeltà posti dagli articoli 2104 e 2105 del Codice civile, alla luce del principio generale di buona fede di cui agli articoli 1175 e 1375 del Codice civile, che il dipendente malato debba astenersi da attività che anche solo potenzialmente rischino di impedirne o ritardarne la guarigione.
Tribunale di Roma, sentenza 7552 del 13/7/2023
Simulazione, rischia il posto anche chi è rientrato al lavoro
Lo svolgimento di un’altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia può giustificare il recesso del datore di lavoro, in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia di per sé sufficiente a fare presumere l’inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una fraudolenta simulazione, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio, con conseguente irrilevanza della tempestiva ripresa del lavoro alla scadenza del periodo di malattia.
Tribunale di Tivoli, sentenza 2386 del 10/5/2023
La malattia impedisce le normali prestazioni
La patologia impeditiva considerata dall’articolo 2110 del Codice civile, che, in deroga ai principi generali, riversa entro certi limiti sul datore di lavoro il rischio della temporanea impossibilità lavorativa, va intesa non come uno stato che comporti l’impossibilità assoluta di svolgere qualsiasi attività, ma come uno stato impeditivo delle normali prestazioni lavorative del dipendente. Ne consegue che, nel caso di un lavoratore assente per malattia che sia stato sorpreso nello svolgimento di altre attività, spetta al dipendente – secondo il principio sulla distribuzione dell’onere della prova – dimostrare la compatibilità di queste attività con la malattia impeditiva della prestazione lavorativa, la mancanza di elementi idonei a far presumere l’inesistenza della malattia e quindi, una sua fraudolenta simulazione, e l’inidoneità delle stesse attività a pregiudicare il recupero delle normali energie psico-fisiche del lavoratore.