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Infortunio sul lavoro e riparto dell’onere della prova

La responsabilità ex art. 2087 cod. civ. è di carattere contrattuale, in quanto il contenuto del contratto individuale di lavoro risulta integrato per legge (ai sensi dell’art. 1374 cod. civ.) dalla disposizione che impone l’obbligo di sicurezza e lo inserisce nel sinallagma contrattuale, sicché il riparto degli oneri probatori nella domanda di danno differenziale da infortunio sul lavoro si pone negli stessi termini che nell’art. 1218 c.c. sull’inadempimento delle obbligazioni. Ne consegue che il lavoratore deve allegare e provare l’esistenza dell’obbligazione lavorativa, del danno ed il nesso causale di questo con la prestazione, mentre il datore deve provare che il danno è dipeso da causa a lui non imputabile e cioè di aver adempiuto al suo obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno

NOTA

La Corte d’appello di Firenze, confermando la sentenza del Tribunale, respingeva la domanda della lavoratrice, collaboratrice domestica, escludendo che l’infortunio subito da quest’ultima subito, mentre era intenta, con l’ausilio di una scala, alla rimozione di tende, fosse ascrivibile al datore di lavoro.
La Corte territoriale – premettendo che il lavoratore che agisca per il risarcimento del danno da infortunio sul lavoro deve provare, oltre al fatto costituente l’inadempimento, anche l’esistenza di un nesso di causalità tra l’inadempimento ed il danno alla salute subito – riteneva che, nel caso di specie, mancasse la prova che fosse stato il datore di lavoro ad impartire alla lavoratrice l’ordine di compiere quell’operazione in sua assenza e che lo scaletto usato non possedesse una base stabile o antiscivolamento.
Avverso tale decisione la lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione lamentando, inter alia, la violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 e 2697 cod. civ. atteso che aveva dimostrato l’esistenza del rapporto di lavoro, dell’infortunio e del nesso di causalità tra l’impiego di un determinato strumento di lavoro e il danno subito, sicché doveva essere il datore di lavoro a dimostrare di aver adottato tutte le misure e cautele necessarie ad evitare il danno, dal momento che essa aveva subito l’infortunio durante lo svolgimento delle sue mansioni, con utilizzo di una scala messa a disposizione dal datore di lavoro e senza aver tenuto o alcun comportamento abnorme.
La Corte di cassazione accoglie il ricorso.
La Suprema Corte rammenta, innanzitutto, la natura contrattuale della responsabilità datoriale derivante dalla violazione delle regole dettate in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro, e ciò in quanto «il contenuto del contratto di lavoro risulta integrato per legge (ex art 1374 c.c.) dalla disposizione che impone l’obbligo di sicurezza che entra così a far parte del sinallagma contrattuale» (da ultimo Corte Cost. n. 15/2023). Sicché, evidenzia la Corte di cassazione, il datore di lavoro «deve rispondere degli stessi eventi lesivi occorsi al lavoratore sulla base delle regole della responsabilità contrattuale (e quindi in base alla prescrizione decennale, all’inversione dell’onere della prova e nei limiti dei danni prevedibili); e la sua responsabilità può discendere da fatti commissivi o da comportamenti omissivi». In tal contesto, assume valenza decisiva – sottolinea la Suprema Corte – quanto stabilito dall’art. 2087 cod. civ. secondo cui «l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa tutte le misure che, secondo le particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro».
Precisa anche la Corte che, qualora la responsabilità fatta valere sia contrattuale, dalla natura dell’illecito (consistente nel lamentato inadempimento dell’obbligo di sicurezza gravante sul datore di lavoro) non deriva affatto una responsabilità oggettiva, occorrendo pur sempre l’elemento della colpa, ossia la violazione di una disposizione di legge o di un contratto o di una regola di esperienza.
La necessità della colpa – evidenzia la Corte di cassazione – va coordinata con il peculiare regime probatorio della responsabilità contrattuale previsto dall’art. 1218 cod. civ. (diverso da quello previsto dall’art. 2043 cod. civ.), per cui nel rapporto di lavoro, a fronte di un infortunio o di una malattia professionale – presunta fino a prova contraria la colpa del datore di lavoro “debitore di sicurezza” – grava su quest’ultimo «l’onere di provare di aver ottemperato all’obbligo di protezione, mentre il lavoratore creditore deve provare sia la lesione all’integrità psico-fisica, sia il nesso di causalità tra tale evento dannoso e l’espletamento della prestazione lavorativa». Non spetta quindi al lavoratore «provare la colpa del datore danneggiante, né individuare le regole violate, né le misure cautelari che avrebbero dovuto essere adottate per evitare l’evento dannoso».
La Corte di cassazione sottolinea poi come l’oggetto sostanziale dell’onere della prova a carico del datore di lavoro sia «particolarmente ampio» posto che esso attiene «al rispetto di tutte le prescrizioni specificamente dettate dalla legge» (valutazione dei rischi, organizzazione dell’apparato di sicurezza, informazione e formazione dei lavoratori, apprestamento dei mezzi, vigilanza, così come delineate dal T.U. n. 81/2008) «oltre che a quelle suggerite dalla esperienza, dall’evoluzione tecnica e dalla specificità del caso concreto» (ex art. 2087 c.c.).
Ciò premesso, la Suprema Corte – ribadendo il principio indicato nella massima sopra riportata, già espresso da Cass. n. 9817 del 14/04/2008 – rileva come la Corte territoriale, nel caso di specie, abbia «all’evidenza» capovolto l’onere della prova della colpa dal momento che la lavoratrice doveva limitarsi a provare «il fatto costituente l’inadempimento», ossia il fatto dell’infortunio sul lavoro, ma non certo la colpa del proprio datore di lavoro, essendo piuttosto onere di quest’ultimo «di provare di aver messo a disposizione della lavoratrice una scala di lavoro idonea, di provare le direttive impartitele anche a carattere inibitorio in relazione alla particolare situazione di fatto ed alla mansione in questione e dimostrare la dovuta vigilanza ed ogni altra accortezza richiesta dalla natura della prestazione (pericolosa in quanto da svolgersi in altezza)».
Infine, quanto all’ampiezza della diligenza richiesta al datore di lavoro in relazione alle circostanze del caso concreto, la Corte di cassazione ricorda che il datore di lavoro rimane responsabile «non soltanto in caso di violazione di regole di esperienza o di regole tecniche già conosciute e preesistenti, ma anche per la omessa predisposizione di tutte le misure e cautele idonee a preservare l’integrità psico-fisica del lavoratore in relazione alla specifica situazione di pericolosità, inclusa la mancata adozione di direttive inibitorie nei confronti del lavoratore medesimo» (Cass. n. 15112 del 15/07/2020).
La Suprema Corte, quindi, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla medesima Corte d’appello di Firenze per la prosecuzione della causa di merito, in adesione ai principi esposti.