Ai fini della validità del licenziamento intimato per ragioni disciplinari, non è necessaria la previa affissione del codice disciplinare, in presenza della violazione di norme di legge e comunque di doveri fondamentali del lavoratore, riconoscibili come tali senza necessità di specifica previsione.
Nota
La Corte d’Appello di Trieste respingeva l’appello proposto dal lavoratore avverso la sentenza di primo grado, con cui veniva rigettato il ricorso d’impugnativa del licenziamento disciplinare intimato al lavoratore in data 1° agosto 2016 “all’esito di un controllo sulle rimanenze del magazzino di Codroipo, cui egli era addetto, e con la quale gli era stato contestato di aver dato causa ad un notevole ammanco di merce «di circa 70.000 euro più IVA».
La Corte territoriale riteneva che «una appropriazione di beni aziendali di valore, comunque, non irrisorio rappresenti un comportamento contrario al minimo etico, la cui realizzazione consente di prescindere dalla affissione del codice disciplinare».
Inoltre i giudici di merito respingevano il motivo d’appello con cui il lavoratore «lamentava che il Tribunale aveva errato nel non considerare la sospensione dal servizio comunicata con la lettera di contestazione del 6 luglio 2016 come un provvedimento disciplinare definitivo, disattendendo, altresì, il motivo con il quale l’allora appellante aveva nuovamente eccepito che non avrebbe avuto la possibilità di dare le proprie giustificazioni, rilevando che con la predetta lettera di contestazione l’azienda gli aveva inviato un elenco di materiali della consistenza di 320 pagine relativo a 7680 articoli inventariati e che di conseguenza il termine di cinque giorni concessogli risultava insufficiente. Rigettavano anche il mezzo con il quale il lavoratore aveva eccepito che il primo giudice avrebbe travisato le motivazioni del licenziamento».
Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione.
La Suprema Corte ritiene immune da vizi l’iter argomentativo della Corte territoriale «senz’altro conforme ad un costante indirizzo di legittimità, così, ex plurimis, tra le più recenti, Cass. civ., sez. lav., 14.4.2022, n. 12321; id., sez. lav., 9.7.2021, n. 19588», secondo cui «nelle ipotesi di condotta contraria al c.d. minimo etico, ossia quando la condotta addebitata sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito», è legittimo il licenziamento disciplinare ancorché non sia stato affisso il codice disciplinare.
La Corte di cassazione rileva, inoltre, che «nell’ambito del procedimento di contestazione disciplinare, regolamentato dall’art. 7 della legge n. 300 del 1970, ove il lavoratore, pur dopo la scadenza del termine di cinque giorni dalla contestazione dell’addebito, richieda un supplemento di difesa, anche se la stessa si sia svolta con l’audizione personale o con la presentazione di giustificazioni scritte, l’obbligo del datore di lavoro di dar seguito alla richiesta del lavoratore sussiste solo ove la stessa risponda ad esigenze di difesa non altrimenti tutelabili, in quanto non sia stata possibile la piena realizzazione della garanzia apprestata dalla legge; conseguentemente, la presentazione di ulteriori difese dopo la scadenza del tempo massimo deve essere consentita solo nell’ipotesi in cui entro questo termine il lavoratore non sia stato in grado di presentare compiutamente la propria confutazione dell’addebito e la valutazione di questo presupposto va operata alla stregua dei principi di correttezza e buona fede che devono regolare l’esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro (così Cass. civ., sez. lav., 13.1.2005, n. 488)».
La Corte territoriale riteneva che «una appropriazione di beni aziendali di valore, comunque, non irrisorio rappresenti un comportamento contrario al minimo etico, la cui realizzazione consente di prescindere dalla affissione del codice disciplinare».
Inoltre i giudici di merito respingevano il motivo d’appello con cui il lavoratore «lamentava che il Tribunale aveva errato nel non considerare la sospensione dal servizio comunicata con la lettera di contestazione del 6 luglio 2016 come un provvedimento disciplinare definitivo, disattendendo, altresì, il motivo con il quale l’allora appellante aveva nuovamente eccepito che non avrebbe avuto la possibilità di dare le proprie giustificazioni, rilevando che con la predetta lettera di contestazione l’azienda gli aveva inviato un elenco di materiali della consistenza di 320 pagine relativo a 7680 articoli inventariati e che di conseguenza il termine di cinque giorni concessogli risultava insufficiente. Rigettavano anche il mezzo con il quale il lavoratore aveva eccepito che il primo giudice avrebbe travisato le motivazioni del licenziamento».
Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione.
La Suprema Corte ritiene immune da vizi l’iter argomentativo della Corte territoriale «senz’altro conforme ad un costante indirizzo di legittimità, così, ex plurimis, tra le più recenti, Cass. civ., sez. lav., 14.4.2022, n. 12321; id., sez. lav., 9.7.2021, n. 19588», secondo cui «nelle ipotesi di condotta contraria al c.d. minimo etico, ossia quando la condotta addebitata sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito», è legittimo il licenziamento disciplinare ancorché non sia stato affisso il codice disciplinare.
La Corte di cassazione rileva, inoltre, che «nell’ambito del procedimento di contestazione disciplinare, regolamentato dall’art. 7 della legge n. 300 del 1970, ove il lavoratore, pur dopo la scadenza del termine di cinque giorni dalla contestazione dell’addebito, richieda un supplemento di difesa, anche se la stessa si sia svolta con l’audizione personale o con la presentazione di giustificazioni scritte, l’obbligo del datore di lavoro di dar seguito alla richiesta del lavoratore sussiste solo ove la stessa risponda ad esigenze di difesa non altrimenti tutelabili, in quanto non sia stata possibile la piena realizzazione della garanzia apprestata dalla legge; conseguentemente, la presentazione di ulteriori difese dopo la scadenza del tempo massimo deve essere consentita solo nell’ipotesi in cui entro questo termine il lavoratore non sia stato in grado di presentare compiutamente la propria confutazione dell’addebito e la valutazione di questo presupposto va operata alla stregua dei principi di correttezza e buona fede che devono regolare l’esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro (così Cass. civ., sez. lav., 13.1.2005, n. 488)».
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Fonte Norme & Tributi Plus – Il Sole 24ore