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Intenzionalità lesiva della condotta datoriale e Mobbing

La ricorrenza di patologie di rango psichico della dipendente non può essere valorizzata a fini risarcitori, in assenza di inadempimenti datoriali o di un’intenzionalità lesiva ai danni della stessa (Corte di Cassazione, Ordinanza 03 novembre 2022, n. 32423).

Il caso

La Corte d’Appello di Bari, confermando la pronuncia del Tribunale, aveva rigettato la domanda con cui una dipendente comunale, quale agente di polizia municipale, aveva chiesto accertarsi, per il conseguente risarcimento del danno, la dequalificazione e demansionamento improvvisamente subiti, quale effetto dell’arresto del proprio marito per vicenda di droga, cui la stessa era rimasta del tutto estranea.

La Corte territoriale aveva ritenuto che le prove raccolte non consentissero di ravvisare comportamenti di dequalificazione o demansionamento, tenuto conto che le contestate attività di piantonamento erano state svolte per un solo giorno e che, se nel tempo la ricorrente era stata adibita anche a mansioni superiori a quelle di inquadramento, ciò non poteva farle acquisire alcun diritto in proposito e dunque l’eventuale riconduzione delle attività al livello suo proprio non poteva considerarsi illegittima.
La sentenza impugnata escludeva altresì la ricorrenza di una fattispecie di mobbing, per l’assenza di prova di un intento vessatorio, potendosi semmai ritenere che le misure adottate servissero a tutelare l’ufficio e la stessa lavoratrice da clamori mediatici, mentre l’adibizione al servizio viabilità corrispondeva a quanto richiesto dalla lavoratrice, a riprova di una disposizione datoriale aperta e disponibile; l’assenza di intenti vessatori e di reali comportamenti demansionanti escludeva altresì, secondo la Corte di merito, la riconducibilità dell’accaduto ad un’ipotesi di straining.

In definitiva, l’insorgenza di disturbi ansioso depressivi in capo alla lavoratrice, non essendo riportabile a comportamenti illegittimi del Comune, non era sufficiente a fondare la pretesa esercitata.

Avverso la sentenza ha proposto ricorso la dipendente, lamentando, tra i motivi, che il ragionamento della Corte territoriale si sarebbe erroneamente sviluppato sul solo piano dell’equivalenza formale delle mansioni, trascurando l’ipotesi che i comportamenti datoriali risultassero in concreto lesivi, attraverso l’attribuzione di compiti meno importanti o significativi, della dignità del lavoratore.
Secondo la tesi della lavoratrice, inoltre, lo spostamento ad altre mansioni aveva indotto i colleghi della stessa ad ipotizzare il suo personale coinvolgimento nelle vicende del marito, il che integrava gli estremi del mobbing; la determinazione di una situazione lavorativa stressogena avrebbe potuto essere ricondotta, peraltro, ad un’ipotesi di straining, parimenti ricompresa nell’alveo della domanda giudiziale dispiegata.

La decisione della Corte

La Suprema Corte ha ritenuto infondate le doglianze della lavoratrice, evidenziando preliminarmente l’erroneità dell’assunto secondo cui, nel valutare il demansionamento non si sarebbe dovuta apprezzare la sola equivalenza formale delle mansioni, ma anche l’incidenza dei mutamenti sulla professionalità e personalità del lavoratore;

in ambito di pubblico impiego, l’art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001 assegna rilievo solo al criterio dell’equivalenza formale delle mansioni, con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che il giudice possa sindacare la natura equivalente della mansione.
L’assegnazione a mansioni diverse, se ricomprese nel medesimo ambito formale riveniente dalla contrattazione collettiva, non può considerarsi comportamento illegittimo o inadempiente.

L’assenza di un demansionamento esclude, altresì, la valorizzazione di tale profilo come ragione di illiceità, sicché è parimenti da escludere che esso possa essere valorizzato come coefficiente colposo utile per i fini di cui all’art. 2087 c.c., mentre, per una qualificazione in termini di mobbing, sarebbe dovuto ricorrere un intenzionale operato finalizzato a ledere la ricorrente.
Di contro, come evidenziato dalla Corte di merito, la breve durata del passaggio difficoltoso conseguente all’arresto del marito della lavoratrice e la circostanza che la stessa fosse stata agevolata, al suo rientro, essendo stata colta l’indicazione da parte sua di destinazione alla viabilità, deponevano per l’assenza di una tale intenzionalità lesiva.
Pertanto, la ricorrenza di patologie di rango psichico esposte dalla dipendente non poteva essere valorizzata a fini risarcitori, in assenza di inadempimenti o di un’intenzionalità lesiva ai danni della stessa.

Fonte Teleconsul Editore SpA