La Corte di Cassazione, ordinanza n° 27934 del 13 ottobre 2021, ha rinsaldato la tesi della natura obbligatoria -e non reale- del preavviso nel contratto di lavoro a tempo indeterminato, donde la rinunzia datoriale non legittima la richiesta della relativa indennità sostitutiva da parte del lavoratore.
Il caso in esame ha riguardato la pretesa del lavoratore dimissionario all’indennità di preavviso in forza della rinunzia del periodo di preavviso da parte del datore di lavoro.
In entrambi i gradi di giudizio il datore di lavoro è risultato soccombente e, per l’effetto, debitore dell’indennità sostitutiva del preavviso, con conseguente integrazione del rateo di tredicesima mensilità e di TFR, oltre accessori.
Gli Ermellini, invece, dopo una disamina della ratio sottesa all’istituto del preavviso – che assolve alla funzione economica di attenuare le conseguenze pregiudizievoli della cessazione del contratto arrecate alla parte che subisce il recesso – hanno ribaltato i due gradi di merito.
A sostegno della propria pronunzia, gli Ermellini, ricorrendo ad una interpretazione letterale e logico-sistematica dell’art. 2118 c.c., in materia di recesso dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, hanno (ri)affermato la natura obbligatoria dell’indennità di mancato preavviso e, pertanto, il preavviso deve configurarsi quale mero obbligo dell’esercizio del recesso, con la conseguenza che la parte recedente è libera di scegliere tra prosecuzione del rapporto di lavoro fino al termine del preavviso o la corresponsione dell’indennità sostitutiva con risoluzione immediata del rapporto; mentre, in capo alla parte non recedente (nella specie il datore di lavoro) si configura un diritto di credito, come tale, liberamente rinunziabile.
In ragione di quanto precede, la parte non recedente, che rinunzia al periodo di preavviso, nulla deve alla controparte, la quale non può vantare alcun diritto alla prosecuzione del rapporto fino a termine del preavviso.