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Scioglimento unilaterale del patto di non concorrenza: nullità per contrasto con norme imperative

La Suprema Corte di Cassazione, con ordinanza del 1° settembre 2021, n. 23723, ha ribadito che, la previsione della risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all’arbitrio del datore di lavoro concreta una clausola nulla per contrasto con norme imperative.

Nella specie, una Corte di appello territoriale ha confermato la pronuncia di primo grado con la quale era stata respinta la domanda proposta da una lavoratrice allorquando era stata dimessa, diretta ad ottenere la somma di euro 40.246,31 quale compenso dovuto per la clausola del patto di non concorrenza per i due anni successivi alla cessazione del rapporto, pattuita al momento della assunzione. La Corte di merito ha rilevato che, il patto medesimo era sottoposto ad una condizione potestativa a favore di parte datoriale, che si era riservata, al momento della risoluzione del rapporto, di decidere se avvalersene o meno e che una siffatta clausola era stata ritenuta nulla, per contrasto con norme imperative, in sede di legittimità. Tuttavia, la Corte ha sottolineato che, nella fattispecie, il contrasto con le norme imperative non era ravvisabile perché il datore di lavoro aveva esercitato il diritto di recesso ben sei anni prima della risoluzione del rapporto di lavoro per cui la lavoratrice non aveva subito alcun sacrificio, in relazione alla facoltà di riorganizzare il proprio futuro lavorativo e da indennizzare con la indennità pretesa.
Orbene, la Suprema Corte di Cassazione ha ribadito che, la previsione della risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all’arbitrio del datore di lavoro concreta una clausola nulla per contrasto con norme imperative; inoltre, è stato altresì precisato che il fatto che, nella fattispecie, il recesso del patto di non concorrenza sia avvenuto in costanza di rapporto di lavoro non rileva, poiché i rispettivi obblighi si sono cristallizzati al momento della sottoscrizione del patto, il che impediva al lavoratore di progettare per questa parte il proprio futuro lavorativo e comprimeva la sua libertà; ma detta compressione non poteva avvenire senza l’obbligo di un corrispettivo da parte del datore: corrispettivo che, nella specie, finirebbe per essere escluso ove al datore stesso venisse concesso di liberarsi ex post dal vincolo.


Tali argomentazioni rendono, conseguentemente, non condivisibile l’assunto della Corte territoriale secondo cui, la circostanza che il recesso fosse avvenuto in costanza di rapporto di lavoro, addirittura diversi anni prima (oltre sei) dallo scioglimento dello stesso, non concretizzava alcuna compressione della libertà del lavoratore di progettare il proprio futuro lavorativo.
Pertanto, premesso che l’obbligazione di non concorrenza a carico del lavoratore per il periodo successivo alla cessazione del rapporto sorge, nella fattispecie, sin dall’inizio del rapporto di lavoro, tamquam non esset va considerata la successiva rinuncia al patto stesso appunto perché, mediante questa, si finisce per esercitare la clausola nulla, tramite cui la parte datoriale unilateralmente riteneva di potersi sciogliere dal patto, facendo cessare ex post gli effetti, invero già operativi, del patto stesso, in virtù di una condizione risolutiva affidata in effetti a mera discrezionalità di una sola parte contrattuale.

Fonte Teleconsul Editore SpA